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Vince «Il silenzio dell'acqua» Colpevole dimenticanza della giuria per il film coreano di Kim Ki-duk

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Il Premio speciale della Giuria è stato attribuito a «Maria», di Calin Metzer (Romania), mentre i due Pardi d'argento sono andati, uno, quello per l'opera prima, a «Gori vatra», di Pjer Zalica (Bosnia), l'altro, quello per l'opera seconda, a «Thirteen», di Catherine Hardwicke (Stati Uniti). Come migliori attrici sono state premiate insieme Rolly Hunter («Thyrteen»), Diana Dumbrava («Maria»), Kirron Kher («Khamosh Pani») e come migliore attore, Serban Jonescu («Maria»). Un verdetto molto discutibile: per i tre premi al film rumeno, gonfio solo di retorica miserabilista, per l'«incapacità di scegliere una «migliore attrice» fra tre, andando oltre l'ex aequo normale e, soprattutto, per la colpevole dimenticanza del film coreano di Kim Ki-duk, «Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera», uno dei pochi, a questo Festival, in cui il cinema era cinema. Dopo la premiazione, il film di chiusura, fuori concorso, italiano anche se parlato in inglese, «Gli indesiderabili» di Pasquale Scimeca. Lo spunto, un libro fra il romanzo e l'inchiesta di Giancarlo Fusco che aveva inteso ricostruire le gesta di alcuni piccoli gangsters italiani espulsi dagli Stati Uniti perché indesiderabili. Cinque personaggi, cinque storie da cui dovrebbero emergere quel clima di violenza, di sparatorie, di sigari e di vendette che, in quei Cinquanta in cui l'azione si colloca, riproduttiva alla lettera gli schemi della mafia dei Trenta, e dei film che la rappresentavano. Scenica, nella sua esposizione, si è tenuto proprio a quei film, anche con una fotografia seppia che ricorda il bianco e nero di quegli anni, ma, pur con coratteri forti, ha costruito una storia debole. E così, oscura da seguirsi che, a spiegarla, non bastano le pistolettate. Ripetute a gragnuola. E adesso, gli ultimi film del concorso. Due opere prime, come, pur essendo ormai legittimati a mutarla, vuole ancora la tradizione di questo Festival: una in arrivo dal Kasakhstan, «Malen'kie Ljudi» (Povera gente) di Nariman Turebayer, l'altra, «Khamosh Pani», realizzata appunto in Pakistan, sia pure anche con capitali tedeschi e francesi. Particolarmente interessante il film kazako. Due amici, per vivere, vendono in strada merce varia. Sostenuti da una impresa che presto però chiuderà per scarsi profitti. Uno andrà negli Urali da una madre che non vede da anni, l'altro continuerà a inseguire l'amore di una ragazza vestita di rosso incontrata per caso. Due personaggi nitidi, coinvolti in situazioni ora liriche ora comiche. Con grazia e con garbo, in cifre visive tutte quieto realismo, lasciato attraversare, però, da sfumature sospese, vicine, spesso, a una piccola poesia. Merito anche di due interpreti solo spontaneità e verità. Qui da noi non arriveranno mai, è giusto almeno nominarli. Erjan Bekmuratov, il più timido, Oleg Kerimov, il più intraprendente. La regista del film pakistano ci riporta, invece, appassionatamente, ai Settanta, con gli integralisti islamici arrivati al potere nel paese. Anticipazione drammatica di quello che sarebbe poi stato l'Afghanistan dei talebani. Un monito anche per oggi. Giustamente messo in risalto dal Pardo d'oro.

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