Piedigrotta e il carro dei disastri
Volevamo dotarci di un foglio periodico, insomma di un giornale, che avrebbe favorito il proselitismo e che, nei nostri progetti, sarebbe andato a ruba nelle scuole pareggiando così i costi di tipografia: sicché tra orzate e granite di caffè si congetturò di far soldi, in vista dell'autunno, prendendo di mira l'opulento Comitato delle Feste di Napoli, che il sindaco Achille Lauro aveva messo in piedi per lievitare ancora il favore popolare che lo innalzava a quote mai viste. Quel comitato — occhiali da sole, abiti di lino e capelli a paglietta — finanziava la costruzione dei carri allegorici che avrebbero sfilato durante la festa di Piedigrotta — la regina di tutte le feste, il 7 settembre — e noi avremmo appunto costruito un carro calcolando di spendere meno della metà dei denari che ci avrebbero dato e, per giunta, puntando di avere il Primo Premio della Giuria che avrebbe presieduto allo sfilamento: e così avremmo costituito una bella cassa dell'associazione, che era poi la Giovane Italia, sodalizio di anticomunismo effervescente. Partimmo in luglio per quest'avventura in città che ci coinvolse in non più d'una decina. E non credo che qualcuno di noi rimpiangesse spiagge sconosciute, montagne o laghi, tanto più che vivevamo in una condizione urbana che non avendo assunto i ritmi oppressivi della produzione industriale non aveva la cultura per cui le ferie divengono un bisogno e preme l'urgenza di voltare le spalle ai propri luoghi per andare ad annoiarsi in Val Badia o, peggio, a Gatteo Mare. Avevo spiato da ragazzo marchesi e contesse che abitavano in case grandi e fresche e la sera si dividevano tra i circoli nautici Italia e Savoia, serviti e riveriti. Erano persone che dovunque c'erano già state, o che non gliene importava nulla di andare chissà dove; persone che, vertiginosamente, facevano il paio non dico con i disoccupati, che ovviamente non anelavano a pause, ma anche con la maggior parte dei napoletani, innamorata del proprio orizzonte di bagni posillipini, angurie fiammeggianti, sciroppi alla menta e ombrose controre. Fu necessario presentare un progetto del carro, che per coniugare un'indicazione studentesca e un elemento di napoletanità intitolammo 'A scola 'e Pulecenella. E un disegnatore di buona mano, Ciccio, studente d'ingegneria, dette un'eccellente resa grafica all'idea: ch'era quella di due cavalli marini alle briglie d'un pulcinella, che trainavano tra onde spumeggianti una caravella sulla quale, a supporto di pulcinelli suonatori, Colombine vezzose e sirene nature, si vedevano piattaforme modellate a sembrare libroni di greco, matematica e latino. Il tutto sarebbe stato costruito sopra lo chassis d'un grande camion a tre assi, residuato bellico americano. Luogo della costruzione: uno spazio recintato nel Largo di San Marcellino, nel tessuto greco-romano della città, non lontano da Spaccanapoli. Il mese di agosto io, Gianni, Eduardo, Tonino, Aldo, Gabriele e gli altri capi dell'associazione lo passammo là, in quel curioso cantiere, attorno alla caravella che prendeva forma sul pianale dell'autocarro, tra gente che, incredibilmente, lavorava per noi giovanotti, che spesso non avevamo neppure i soldi per comprare un bicchiere d'acqua di seltz o due sigarette «Nazionali» e adesso invece pagavamo, col finanziamento ottenuto dal Comitato Feste di Napoli, carpentieri, falegnami, elettricisti, due operai di scenografia per fare le onde di cartone e poi ancora un personaggio lieve, il mite professor De Rosa, decoratore, al quale non avemmo il coraggio di dire «guardi, lei è una cara persona, le sue grottesche e le rose che dipinge sulle ante degli armadietti sono aliti di grazia, ma lei qui tra colpi di martello, chiodi da dieci centimetri, fasciame, oblò e destrieri di cartapesta prestatici dal commendator Di Costanzo, s