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Cinque sorelle russe, una villa veneta. Un racconto inedito dello scrittore friulano per i nostri lettori

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Natalia, la più giovane, era poi una vera bellezza, che a nessuno, uomo o donna, vecchio o giovane, poteva passare inosservata. Betty, la più grande (ma aveva appena ventisei anni) si era laureata all'università di Arcangelo sulla pittura veneta del Cinquecento. Erano venute tutte insieme in Italia poco dopo il crollo del muro di Berlino e del comunismo europeo. Il motivo era piuttosto singolare. Un bisnonno delle Strigov, un Granduca amico fraterno dello Zar, era venuto a stabilirsi in Italia con la madre quasi all'inizio del secolo. Aveva studiato all'Accademia militare di Pietroburgo, e quando scoppiò la prima guerra mondiale aveva ottenuto dalle autorità militari di combattere con l'esercito italiano contro gli Imperi Centrali. Infatti possedeva una doppia nazionalità. Durante la guerra aveva conosciuto in una «maison» per ufficiali una ragazza veneta, e l'aveva sposata, incurante dei consigli contrari che gli erano piovuti addosso da tutte le parti. Anni dopo la fine della guerra aveva ricoperto la carica di addetto militare presso l'ambasciata dell'Urss. Non è che i bolscevichi si fidassero molto di lui. Però con quella nomina avevano ottenuto la restituzione dei gioielli di casa Strigov, perché «appartenevano al popolo». Il Granduca accettò. Fece eseguire delle copie perfette da abilissimi orafi vicentini. L'oro e il platino delle montature erano autentici, ma le pietre tutte false. Ma nessuno se ne accorse: nel paese non v'erano più gioiellieri, il loro mestiere era scomparso con l'avvento della rivoluzione; oppure gli artigiani consultati non vollero tradire i loro antichi clienti, che un giorno forse sarebbero potuti ridiventarlo. Arrivato all'età della pensione il Granduca abbandonò Roma e acquistò una grande villa di stile Liberty. Era la «maison» dove quarant'anni prima aveva conosciuto sua moglie. La bella veneziana sopravvisse al marito, e superò i novant'anni. Il suo unico figlio, collaudatore di aerei, era morto in un incidente dopo la seconda guerra mondiale. Era tornato in Russia ed era il nonno delle biondissime sorelle Strigov. Anche il loro padre, un pope, era passato precocemente a miglior vita. La madre, desolata, andò a chiudersi in uno dei pochissimi conventi femminili rimasti in uno dei Paesi del mondo in cui si predicava l'ateismo di stato. Rimaste sole le sorelle cercarono di cavarsela come potevano. Betty diventò direttrice del museo-pinacoteca di Kem, nella penisola di Cola. Annette fu operaia in una fabbrica di pesce marinato. Olga s'impiegò in un negozio di pellami. Natalia diventò sarta e Ludmilla badava alla casa. Tutte avevano un'istruzione di scuola superiore. Betty era riuscita anche a laurearsi, per una svista della burocrazia russa, perché alle altre si era impedito di entrare all'università, o comunque in una professione importante, con questa o quella motivazione. Ma la ragione vera era che, essendo figlie di un pope, erano viste come soggetti pericolosi dal lato ideologico. Dopo il crollo del comunismo ricevettero una cartolina di saluti dalla bisnonna italiana. Dall'altra parte v'era l'immagine di villa Elisa, la famosa «maison» di un tempo lontano. Le sorelle Strigov non ne sapevano niente. Pochi mesi dopo ricevettero una lettera da un notaio di Treviso che le precipitò tutte nell'eccitazione più agitata. La bisnonna le aveva nominate eredi universali. La villa, i gioielli, un pacchetto cospicuo di buoni del tesoro appartenevano a loro. Che fare? «Se volete, vado io in Italia a sistemare le cose», disse Betty. Per via degli studi fatti sapeva anche un po' d'italiano. «Veniamo anche noi», dissero le sorelle. Erano troppo curiose e scosse per restare a Kem in attesa di eventi. Avevano un desiderio grandissimo di vedere l'Italia, di cui avevano tanto sentito parlare. Affrontarono un lunghissimo viaggio in treno: da Kem a Pietroburgo, da qui a Leopoli, da Leopoli a Vienna e da Vienna a Treviso. Tre giorni di ferrovia, e non era ancora finita. Incontrarono il not

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