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Beni culturali, tre ragioni contro la devoluzione

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La prima è di ordine culturale: la tutela dei beni di cui si discorre discende dall'essenza simbolico-metafisica degli stessi e, conseguentemente, dalla funzione educativa che i medesimi sono chiamati a svolgere, funzione capace, come rammenta il Rilke, di far civile anche il popolo più oscuro. Secondo la lezione di Giannini, il bene culturale è sempre bene immateriale e, come tale, suscettibile di fruizione universale a garanzia della quale si pone nei vari ordinamenti il dovere di tutela come compito della pubblica potestà. Non è dunque un caso che tale obbligo assuma dignità di prescrizione costituzionale, nella nostra Magna Carta, la Costituzione. E non è superfluo rammentare che la Costituente aveva licenziato un testo dell'art. 9, in cui era scritto: «lo Stato tutela...» e che solo al momento della redazione finale il termine Stato venne sostituito con quello di «Repubblica» che, ovviamente, comprende anche le Regioni, ma, e solo, in un contesto di rapporti collaborativi. Se, dunque, la fruizione del bene culturale ha da essere pubblica, il dovere della tutela deve essere garantito come servizio pubblico allo stesso modo da un capo all'altro del territorio nazionale. D'altra parte, in tale patrimonio è scritta l'identità della Nazione stessa, la cui unità non può tollerare devoluzioni o lacerazioni. Una seconda ragione è di ordine scientifico: la tutela presuppone la conoscenza del bene e si concreta in una strategia di interventi tecnico-scientifici, tesi alla restituzione del bene stesso alla sua realtà ontologica e semantica. Il recupero che ne attualizza la memoria e reinserisce il bene offeso nel sistema fruitivo universale poggia su regole che devono essere le stesse e nello stesso modo osservate su tutto il territorio nazionale; ma v'è di più, la scuola della tutela va oltre la conoscenza tecnica di metodi e sistemi, perché vive di una cultura, di una sensibilità, che non si inventano e che nel nostro caso si radicano in quella «compassione per le opere ruinate», che faceva di Raffaello il nostro primo soprintendente e che, successivamente, investiva di tale responsabilità Michelangelo, Bernini, Bellori, Winkelmann, Canova e, nello Stato unitario, Borghi e Fiorelli, Gallo e Argan, e Brandi. Almeno da quando Ferdinando I dei Medici istituiva l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze (nel 1588), ed i Papi licenziavano Editti di tutela celebri come quelli dei Cardinali Aldobrandini e Spinola, la tutela scientifica ha costituito quel patrimonio italiano di cultura, che vede nella Soprintendenza — come intuì Bottai - il presidio della tutela sul territorio. Una terza ragione è di ordine giuridico: un sistema normativo, prescrittivo e sanzionario, ordinato alla salvaguardia dell'integrità del patrimonio nazionale, non può essere che unitario, ovvero valido, e allo stesso modo, sull'intero territorio nazionale, dalla prevenzione alla repressione. Ma il sistema unitario, che si avvaleva, della salda collaborazione con le Regioni, è da un lustro minato da provvedimenti improvvidi, quali: 1) l'art. 4 del Testo Unico 490/1999, che ha introdotto una nuova categoria, quali gli oggetti che costituiscono «testimonianza avente valore di civiltà», la quale, come hanno osservato, tra altri, Alibrandi e Lemme, è svincolata da ogni riferimento estetico e può perciò allargarsi a dismisura; 2) la tutela è stata scissa dalla valorizzazione, come se — giusto quanto ripeteva Spadolini — non si tutela valorizzando e non si valorizza tutelando; 3) è stata sancita l'alienazione dei beni culturali e ambientali, che, con la privatizzazione, sottrae alla pubblica fruizione il patrimonio; 4) è stato previsto, con la riforma del Titolo V della Costituzione, il trasferimento a soggetti eletti, quali i governatori regionali, i presidenti provinciali e i sindaci con competenze in materia, che per le ragioni su espo

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