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Il gran pasticcio dell'armistizio

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La riprova più clamorosa di questo assunto - con i relativi, irreparabili guasti - è nel modo col quale il governo del Maresciallo Badoglio negoziò l'armistizio con gli Alleati, sessant'anni fa. Il 12 agosto 1943, partiva da Roma in treno (!), diretto a Lisbona, il generale Giuseppe Castellano, che non sapeva una parola di inglese, accompagnato come interprete dal console Franco Montanari, nipote di Badoglio. L'ambasciatore italiano a Lisbona, Renato Prunas, cadde dalle nuvole, quando Castellano si presentò da lui, dopo aver contattato i rappresentanti inglesi e americani: rimase inutilizzata una ricetrasmittente, con codice ermetico, per comunicare con Roma. Castellano aveva in tasca il testo del cosiddetto «armistizio corto», meno oneroso (deliberatamente) di quello «lungo»: e con questo documento, sempre in treno, tornò a Roma il 27 agosto. Nel frattempo, allarmati per il prolungato silenzio del primo «misso dominico», Badoglio e gli altri avevano fatto partire il 24 agosto, sempre alla volta di Lisbona, il generale Giacomo Zanussi, parimenti digiuno della lingua di Shakespeare, accompagnato come interprete dal tenente Franco Galvano Lanza di Trabia. Non solo. Senza alcun coordinamento con le missioni Castellano-Zanussi, si era mosso Dino Grandi, principale protagonista del 25 luglio, amico di vecchia data di Winston Churchill, essendo stato ambasciatore italiano a Londra negli anni di anteguerra. Si era alla farsa la più grottesca e controproducente. Ce n'era abbastanza per autorizzare i più vivi sospetti da parte degli Alleati. Che modo di trattare con loro era quello? Come mai i generali Castellano e Zanussi non erano muniti di pieni poteri? E poi, c'era poco da negoziare. Il testo dell'«armistizio lungo» — consegnato però a Zanussi — esordiva, all'articolo I: «Le Forze armate italiane di terra, mare e aria, ovunque dislocate, con questo atto si arrendono incondizionatamente». Quando Castellano e Zanussi si incontrarono, in Sicilia, in campo alleato, non si parlarono, non si scambiarono i testi dei due armistizi e le ambiguità si sommarono, con grave pregiudizio per quel sotterraneo modo di fare. Questo fu l'incredibile, contorto antefatto dell'armistizio, firmato da Castellano a Cassibile — nel Siracusano — il 3 settembre 1943. Eisenhower si rifiutò di sottoscriverlo, avendo definito il tutto «uno sporco affare». Fu il Capo di Stato Maggiore di Eisenhower, generale Bedell Smith, ad apporre la sua firma. Del tutto arbitrariamente (gli Alleati si erano ben guardati dal rivelare i loro piani) Castellano era pervenuto alla conclusione che Eisenhower avrebbe dato l'annuncio dell'armistizio il 12 settembre. Ma il comandante in capo alleato intendeva «usare» quello storico annuncio in funzione dello sbarco a Salerno, già deciso; la defezione dell'Italia dall'Asse avrebbe causato scompiglio in campo tedesco. Per cui l'annuncio avvenne l'8 settembre, e il re, Badoglio e tutti gli altri dovettero uniformarvisi. Il resto è noto. L'esercito si sfasciò, lo Stato si sfasciò. La cosiddetta «fuga di Pescara» (in borghese, a Pescara, sulla corvetta «Baionetta», si imbarcò Badoglio; i reali salirono a Ortona) sigillò quella oscura pagina della storia d'Italia, percorsa in lungo e in largo, come disse Churchill, «dal rovente rastrello della guerra».

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