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di PIRRO DONATI EBBENE sì - direbbe senza giri di parole il televisivo conte Uguccione - al ...

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Il fatto è che sugli scatenamenti erotici e sul feticismo del maestro hanno battuto la grancassa molte recensioni all'edizione anglo-inglese - non tutte per fortuna - dando del libro un'immagine inesatta. Toscanini lo aveva presentito? «Giudicate l'uomo e l'artista... ma per carità, fermatevi sulla soglia della camera da letto!», aveva raccomandato con veemenza a un musicologo morbosamente interessato alle vicende extraconiugali di Giuseppe Verdi, e mai richiesta fu più disattesa. Erotismo e pornografia, che bel binomio per un clamoroso lancio pubblicitario, ma la delusione è dietro l'angolo, perché le lettere d'amore di Toscanini, con la loro ripetitività, quasi fossero clonate le une dalle altre, sono certo la parte più noiosa del volume. Piuttosto al lettore attento l'occasione offerta da questa raccolta epistolare è una conoscenza ravvicinata con Arturo Toscanini, e il suo mondo. Estese lungo i quasi settant'anni della sua carriera, dal 1886 al 1954 più le ultime riflessioni sull'attesa della morte, indirizzate agli amici, agli avversari, alla moglie, alle donne più o meno amate, a musicisti famosi (Puccini, Debussy, Kodály), a direttori d'orchestra di grande nome (Walter, Cantelli, Molinari-Pradella), a D'Annunzio, a Mussolini, a Roosewelt, nel loro giustapporsi ed incastrarsi come le tessere di un puzzle, si sedimentano in una sorta di autobiografia involontaria, di straordinario impatto perché esente da censure e da reticenze. Sin dal suo esordio nei teatri di provincia il giovane maestro preannuncia il grande direttore che diventerà, per il puntiglio con cui sceglie i cantanti e gli strumentisti e li sostituisce quando inadeguati, senza contare l'accanimento nelle prove: «faccio una vita da cane»... «sono sfinito dalla stanchezza», «vado fuori di casa alle 8 e mezzo e ritorno alla mezzanotte». Per il «Mefistofele» insiste fino all'una dopo mezzanotte: «Quei poveri artisti li faccio diventar matti...». Al «Tristano», mangiando due uova in tutta fretta, dedica undici ore quotidiane. La sua irascibilità si nutre dell'ansia del perfezionismo: inveisce e urla contro gli orchestrali, pianta le prove a metà perché «la messa in scena è qualcosa di miserabile... non permetto l'andata in scena in quel modo indecente». Erompe l'immanente insoddisfazione del maestro per i risultati raggiunti con il suo lavoro. Ma Toscanini vive un momento critico dell'economia e della cultura musicale italiana: il passaggio dall'impresariato privato - con l'affarismo pervicace, gli editori che si fanno guerra, fino agli artisti che inseguono il successo al botteghino - alle sovvenzioni dello Stato. Il suo racconto, magari involontario, arriva da una postazione privilegiata, il podio della Scala, primo dei grandi teatri italiani fin dal 1921 a usufruire del foraggio pubblico. A questo cambiamento epocale, la risposta del maestro ha un che di granitico: «Così per tutti gli spettacoli, senza guardare in faccia a Wagner più che a Boito - a Saint Saëns più che a Bucci Peccia, potrò dire che sono stati curati con egual passione, con egual amore». La mai paga ricerca di qualità è fame d'indipendenza artistica, che Toscanini magari intendeva dovuta a lui e a pochi altri da lui eletti. Comunque, una risposta disattesa dalle istituzioni musicali italiane, allora e oggi. Non sorprende che scintilla scatenante dello scontro, durissimo, con il regime di Mussolini sia il licenziamento politico del direttore del conservatorio di Milano, il maestro Gallignani, seguito dal suo drammatico suicidio, («Ministro e Direttori Generali, questo suicidio vi graverà eternamente sulla coscienza»). Inseriti nel fluire quotidiano della vita - la carriera, gli amori travolgenti, le avventure mordi e fuggi con le cantanti, i malintesi, le disillusioni - gli snodi dell'antifascismo tos

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