Vittorio Emanuele come Pompeo con Cesare
Perciò, uscito la prima volta or sono dieci anni, bene ha fatto Il Mulino a riproporlo all'attenzione dei lettori. Il volume è suddiviso in tre parti. La prima riguarda i difficili rapporti tra il nostro paese e gli alleati e che vanno dalla pace separata alla resa senza condizioni. La seconda investe una fase storica chiave: quella del 25 luglio all'8 settembre. E infine c'è il racconto di tutte le conseguenze, a cominciare dalla «fuga» del re. Non a caso ho inserito tra virgolette questo termine di «fuga», perché su di esso c'è molto da discutere, anzi da accapigliarsi fra chi considera il gesto di Vittorio Emanuele effettivamente come un atto disdicevole e chi invece lo giudica come una soluzione saggia e ben meditata per salvare il salvabile. Aga Rossi è per la prima ipotesi, e la espone tuttavia senza aggiungervi quell'acredine cui ricorrono altri - in maggioranza di orientamento repubblicano - nel condannare la dipartita del re da Roma. Il 2 giugno il sottoscritto votò repubblica, tuttavia ha da sempre nutrito un'opinione assai diversa da quella della «fuga». L'idea originaria di lasciare Roma risaliva a Badoglio, ed egli la difendeva con minuzia di particolari: «I Capi di Stato che hanno avuto il Paese invaso si sono in tempo recati all'estero. Nessuno si è mai sognato di qualificare questo loro atto come "fuga". Il nostro Re non si trasferì all'estero, ma in territorio italiano, allora non occupato né da Tedeschi né da Anglo-americani». Insomma tutto ciò significava che trasferendosi al Sud si riusciva a mantenere operante l'armistizio di Cassibile, e si risparmiava all'Italia «distruzioni ben più radicali di quanto non ebbe a sopportare». Non è del tutto ozioso ricorrere in proposito a un grande precedente storico che proveniva dall'antica Roma di Pompeo e di Cesare. Giulio Cesare aveva attraversato in armi il Rubicone con l'intento di marciare su Roma. Che cosa doveva fare il grande Pompeo? Egli sapeva di non avere le forze necessarie per difendere efficacemente la città, e decise di abbandonarla senza combattere. Ciò per mettere in salvo il governo legittimo dall'aggressione di Cesare l'usurpatore, e offrire allo Stato le migliori e più prolungate possibilità di difesa. Non tutti approvarono il re, come non tutti avevano approvato Pompeo. «Se la decisione di Pompeo di abbandonare Roma», aveva detto Cicerone, «sia stata una prova di saggezza o di coraggio non starò a discuterne». Elena Aga Rossi «Una nazione allo sbando» Il Mulino 20 euro