Gli artisti di serie B sono spesso stati imposti dai colleghi della stessa scuderia
In questi ultimi trenta-quaranta giorni di programmazione le rassegne romane hanno dato visibilità alla capitale, collocandola al top della centralità musicale, al pari di New York o Londra. Il pubblico ha risposto premiando il cartellone parecchi pienoni, a fronte di biglietti non certo a buon mercato. La musica dal vivo, dunque, non sembra conoscere crisi (differentemente da quella registrata) e presumibilmente il boom, appena attenuato, continuerà nel mese di agosto e per tutta la prima parte di settembre. Agli organizzatori, impresari e manager, è il caso però di rivolgere un appello relativo alla scelta degli artisti invitati in Italia. Non sempre si tratta di scelte felici. Qualche volta ci sono dietro ragioni di «packagin», ovvero gruppi di artisti appartenenti alla stessa scuderia e imposti dai colleghi stranieri. Artisti che arrivano in pacchetto e che troppe volte subiamo passivamente. Ciò accade perché gli amministratori locali, cioè quelli che pagano, non hanno la necessaria competenza per valutare il valore delle proposte. Insomma, non siamo alla classica fregatura ma certamente ci sono state molte ingenuità. Nelle settimane scorse abbiamo avuto a Roma Earth, Wind & Fire, Toto, Kool & The Gang, Kid Creole, formazioni storiche non più al meglio delle loro possibilità. Formazioni importanti, in qualche caso addirittura storiche, ma ormai copie sbiadite di quello che furono. Qualcuno avrebbe dovuto avvertire gli amministratori (i loro consulenti?) che stavano per ingaggiare gruppi in netto declino, talora privi degli elementi cardine ma in grado di offrire una «testata» ancora glamour. Il caso limite si è raggiunto con i Platters, storica formazione nero-americana degli anni Cinquanta, di cui non è rimasto più alcun membro originario. Eppure esistono quattro o cinque formazioni al mondo denominate Platters che continuano a chiedere e ottenere immeritati cachet. L'altro appunto è di ordine artistico e riguarda principalmente l'incapacità di alcuni musicisti di rinnovare il proprio repertorio. Non ci scrivono più brani importanti, non al punto da diventare classici ma nemmeno di ben figurare accanto a quelli storici. Per strappare l'applauso o il bis con il pubblico in piedi occorre lucidare l'argenteria del passato, tornando in dietro di trent'anni. È successo ai Deep Purple, ai Jethro Tull, agli Yes, ma anche a Lou Reed (nella foto), gruppi dal passato luminoso ma avari di successi recenti. Un'aridità compositiva che riguarda anche il folto drappello dei musicisti brasiliani, accolti come star dal pubblico romano. Maria Bethania e Gilberto Gil sono artisti venerati ma non hanno in scaletta successi recenti; Joao Gilberto è ricorso ai sempreverdi degli anni Sessanta , mentre Caetano Veloso addirittura agli standard americani o alle canzoni italiane. Un discorso molto pericoloso che riguarda tutto il music-business internazionale e che rischia di relegare il rock, il pop e il sound latino a pura musica di repertorio. Il jazz lo è già da molto tempo. Anche per questo appaiono inaccettabili e anacronistici certi divismi di Keith Jarrett (al minimo bisbiglio minaccia di abbandonare il palco) o di Diana Krall (che ha saltato e spostato molte date). Gli organizzatori hanno preferito fare buon viso a cattivo gioco fidando soprattutto nelle prevendite e negli ottimi incassi. Hanno avuto ragione, ma bizze e isterismi andavano condannati con fierezza.