di GIANLUIGI RONDI ERA nato nel 1903, apparteneva dunque alla fortunata schiera dei grandi ...
Anche lui nel comico. A conferma che davvero il riso fa buon sangue. Per Bob Hope del resto si può dire che abbia fatto ridere quasi fino all'ultimo. Non tanto con i suoi film (il cinema lo aveva abbandonato presto), ma con quella sua capacità di intrattenere il pubblico, da solo, con parodie, imitazioni, barzellette e battute non di rado anche spinte di cui aveva in tasca un ghiotto repertorio, via via, con il tempo, aumentato, arricchito, perfezionato, con l'aggiunta — tipica degli intrattenitori — di puntuali riferimenti all'attualità che gli si andava svolgendo attorno. Le ultime notizie di queste sue esibizioni ci erano arrivate fra il '90 e il '91, perché era andato in Irak e in Kuwait a far divertire le truppe americane impegnate nella Guerra del Golfo. Prima però, sempre con questi impegni, era andato nell'84 in Libano, al seguito della forza internazionale, e prima ancora in Vietnam, senza dimenticare gli spettacoli quasi quotidiani che, in quelle stesse cifre, era riuscito a organizzare per le truppe americane durante la Seconda guerra mondiale. Con tale generosità e con tale costante dedizione da essersi addirittura meritata una delle più importanti onorificenze degli Stati Uniti, la «Medaglia della Libertà» (Medal of Freedom), mentre Hollywood, prendendo in considerazione anche tutti quei suoi spettacoli di beneficenza a favore di bambini e di malati, non aveva esitato ad attribuirgli ben cinque Oscar «ad honorem», privilegio concesso a pochi. Erano gli unici Oscar, del resto, che gli si potessero assegnare. Non era un vero attore, era una faccia, una maschera. E con quelle recitava, ricorrendo però soprattutto a delle smorfie, costruite in modo tale, comunque, che, pur senza dar vita a veri e propri personaggi, riuscivano a strappare risa abbondanti in platea. Specie in quegli anni in cui, facendo coppia con Bing Crosby, e avendo spesso come partner seducente Dorothy Lamour, si era cimentato con innegabile successo in una serie di film in cui alla comicità si accompagnavano anche le canzoni, secondo gli schemi tipici del musical americano e, più modestamente, degli spettacoli europei di varietà. Bastino pochi titoli attorno ai Cinquanta, «Eravamo sette fratelli», ad esempio, di Melville Shavelson, e subito dopo «Quel certo non so che», di Norman Panama e Melvin Frank, preceduti da quel western tutto voltato in burla che era «Viso Pallido» in cui Bob Hope, come ai tempi di Dorothy Lamour, faceva coppia addirittura con Jane Russell, confermando però a tal segno le sue doti comiche (efficaci anche se affidate alla sola mimica) che il regista del film, Norman Z. McLeod, se lo tenne vicino per anni, dandogli fra l'altro una parte di rilievo, e gustosissima, in quella «Grande notte di Casanova» in cui Bob Hope, al servizio del sarto veneziano di Casanova (interpretato da Vincent Price), si faceva passare per il grande seduttore, alle prese addirittura con Joan Fontaine. Rivelandosi abilissimo nel reggere il gioco di una commedia degli equivoci che, proprio in virtù della sua presenza, finiva presto tra le pieghe più fortunate del farsesco. Eravamo già però sul finire dei Cinquanta. Il teatro, il varietà, la televisione che si stava affacciando cominciavano a interessare Bob Hope molto più del cinema. Ancora qualche titolo: «La sottana di ferro» di Ralph Thomas con Katharine Hepburn, girato in quell'Inghilterra dov'era nato ma da cui era emigrato a quattro anni, «Giacomo il bello», sempre di Melville Shavelson, con Vera Miles, «Paris Holiday», diretto in Francia da Gerd Oswald, con Anita Ekberg, avendo però al fianco anche Fernandel: con il rischio (ovvio) che il confronto non gli fosse favorevole. Poi i nuovi orizzonti, i palcoscenici, la beneficenza, le tournées sui vari fronti di guerra che si aprivano di continuo. Sempre facendo ridere, e ridendo anche lui. Indifferente, come si è visto, al passare degli anni. E sempre più ricco. Perché la «beneficenza» l'ave