Il gelo arma peggiore dell'atomica
Accusa alla società del progresso e delle scoperte scientifiche «disumane»Alla morte del fisico nucleare Felix Hoenniker i figli cercano di sfruttarne l'invenzione ma saranno tutti e tre travolti da tragiche vicende
Negli anni a venire infatti apparve sempre più chiaro che «Ghiaccio nove» di Kurt Vonnegut configurava la riflessione critica in un momento storico di immobilità del reale, che tuttavia gettava le basi per una continuità, si potrebbe dire una ripetitività, di talune tragiche avventure dell'uomo, rese ancora più traumatiche quando diventano di reale attuazione. Del resto scrittore prodigo di romanzi poetici, perfino più reali e sicuramente più documentati che non quello di Orwell, di cui in questi giorni abbiamo celebrato il centenario. Kurt Vonnegut in tutta la sua opera ha lavorato su dati concreti, a metà strada tra scienza e inversione letteraria, ponendo un problema di fondo che riguarda la forza di persuasione del fantastico, dell'immaginario sorretto dal supporto di un accertato dato scientifico, nel contesto della realtà, degli spazi cioé in cui il soggetto umano vive, si muove opera in concreto. Sensibile verso questi nuclei tematici, Vonnegut li ha di frequente affrontati — memorabile il suo Mattatoio n.5 trasposto anche in film — ma in questo «Ghiaccio nove» il tema viene aggredito frontalmente, senza sovrastrutture letterarie: non per puro caso si tratta del testo che ovunque nel mondo risulta il più amato dalla giovani generazioni, poiché il tipo di contestazione nei confronti della società del progresso e delle grandi scoperte scientifiche riflette un impatto diretto, senza gli infingimenti che talvolta invadono il territorio della creatività letteraria. Né tale rigore disturba più di tanto il potenziale intuitivo dell'artista tanto amato da Graham Greene da sospingerlo verso la definizione di lui come «del più grande scrittore vivente negli anni Sessanta». Dopo un ironico occhiello in corsivo («Niente è vero, in questo libro»), Vonnegut immette il lettore repentinamente nella situazione, com'è suo costume letterario, ed eccoci di fronte a uno scrittore che ha in mente di scrivere un libro sul giorno in cui la prima bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima. Il libro dovrebbe intitolarsi «Il giorno in cui il mondo finì», riflessione non nuova né originale, poiché essa rappresentò a quel tempo un pensiero collettivo. Ma lo scrittore di Indianapolis ben presto mette da parte la titolazione, e quanto essa rappresenta, per infiltrarsi invece all'interno dell'universo degli scienziati, per verificare cosa stessero facendo in tragica contemporaneità con la catastrofe. E ancor più nei giorni a venire: «Cinquemila e passa abitanti di San Lorenzo ci guardavano. Gli isolani erano del colore della farina d'avena. La gente era magra. Non c'era una sola persona grassa in vista. Non ce n'era una a cui non mancasse qualche dente. Molte gambe erano arcuate o gonfie». Vonnegut costruisce il suo romanzo sul filo teso della corrispondenza con i tre figli dell'ormai defunto scienziato Felix Hoenikker, Premio Nobel per le scienze, costruttore responsabile della bomba. Si apprende allora che in quel terribile giorno, Hoenikker — un po' cinicamente — stava risolvendo un gioco rompicapo che lo stava seriamente intricando da un po' di tempo, e ancora, che la notte della sua morte trafficava in cucina con dei pezzetti di ghiaccio. Da buon scienziato che utilizza ogni oggetto per giungere alla quadratura, si era impegnato, in cucina, nel trovare il sistema di congelamento dell'acqua ad alte temperature. Una scoperta non da poco, anzi un'arma micidiale di distruzione individuale e di massa, perché in grado di annientare ogni forma di vita sulla terra. Saranno i tre figli — singolare, agghiacciante coincidenza con il nostro tempo — a tentare di utilizzare nel modo più proficuo, si fa per dire, questa ingegnosa scoperta paterna. Ognuno lungo una sua strada individuale che Vonnegut segu