di CARLO SGORLON UN'ESTATE davvero singolare per me fu quella del 1945.
Ognuna di esse creava un corto circuito, un campo magnetico in cui scoccavano continue, invisibili scintille. Ma i tempi erano infinitamente diversi da oggi, e tutti eravamo travolti da fatti storici drammatici e disorientati. Due anni prima, la guerra s'era conclusa con l'armistizio, ma non per questo era finita, e nel giro di poche ore i tedeschi, da ex alleati, diventarono invasori e nemici. Si cominciavano a conoscere gli orrori disumani di cui s'erano macchiati. Inglesi e americani occupavano l'Italia, e anche il paese di collina in cui la mia famiglia si era rifugiata. Mia madre era incinta della mia ultima sorella. La fame era tanta, e tutti in casa eravamo carichi di preoccupazione per una lunga serie di ragioni. Gli inglesi piantarono una tendopoli sul colle accanto al paese. Tutti scoprimmo allora che non v'era proprio alcun motivo perché il Padreterno li dovesse stramaledire, come Mario Appellius aveva gridato diecine o centinaia di volte dai microfoni dell'Eiar. Spesso erano persone educate, colte e gentili. Un sergente, che aveva nome Jim Macole, venne a casa mia perché una mia sorella aveva un pianoforte, e ci chiese il permesso di suonarlo. Parlava un po' d'italiano appreso a Cassino e ad Anzio, nei periodi stagnanti della guerra lungo la linea Gustav e quella Gotica. Era un discreto acquerellista di paesaggi e ci regalò molti dei suoi lavori. Presto si seppe che alcune donne del paese salivano sul Coldeàn («colle di giano») per lavare i loro piatti, le camicie e i pantaloni delle divise. Gli inglesi non pagavano. Dei compensi in denaro non erano neppure pensabili, ma comunque avevano un modo per sdebitarsi. Un compenso in natura. Cuochi e soldati disponevano di cibo in sovrabbondanza. Così si poteva ottenere dai campeggiatori zucchero, tè, pane bianchissimo (probabilmente di riso), che faceva contrasto assoluto con quello scurissimo, di segale, che talvolta riuscivamo ad avere dai tedeschi. Si potevano ottenere pingui fette di pudding, arrosto di montone o di bue, verdure lessate di ogni tipo e persino del caffè, che da noi era ormai stato sostituito da anni con l'orzo tostato. Mio nonno non lo chiamava caffè, ma «sbrudiòt», ossia brodaglia, che col vero caffè aveva in comune soltanto il colore. Mio nonno aveva rispetto per le parole, perché era un po' scrittore anche lui. V'era nel borgo la leggenda che sul Coldeàn fosse arrivato il paese della cuccagna, bastava accettare l'idea di fare da sguatteri agli inglesi. Le donne più intraprendenti avevano subito organizzato e gerarchizzato quel lavoro. Si dedicavano ad esso, ma anche lo subappaltavano, come avviene anche oggi in affari di ogni natura. Gli inglesi non ne sapevano nulla e non volevano saperlo. Accettavano di avere accanto quella gente tranquilla e servizievole, che li sollevava da attività poco gradite. Da noi non v'erano agguati da temere, come succede oggi dalle parti di Bassora. Ci pensavano i cuochi, i «cambusieri», i custodi delle derrate alimentari, o i soldati disappetenti, più attirati dalle ragazze che dai lauti pasti, a compensare il lavoro. Un posto da sguattero fu appaltato anche per me e un mio fratello. Nessuno ci chiese mai perché stavamo lì, chi ci aveva chiamati e cosa volevamo. La fame era la regina di quei tempi, ma nessuno ne parlava, né ammetteva di fare, a causa di essa, cose che in tempi normali non avrebbero sfiorato la mente di nessuno. Dopo la cena degli inglesi io e mio fratello tornavamo a casa con del cibo prezioso in bizzarri contenitori. Dopo due o tre anni di carestia, finalmente si mangiava in modi quasi normali. Pensavamo soprattutto a mia madre e alle sue condizioni. In agosto nacque una bambina bella e florida, esattamente tre giorni dopo che era stata lanciata la bomba di Hiroshima. Con quell'ultimo massacro la guerra era veramente finita dappertutto.