Venticinque luglio, in una notte torrida di 60 anni fa il Gran Consiglio «uccideva il fascismo»
La notte fra il 24 e il 25 luglio del 1943 fu la più calda di quella lunga e drammatica estate. La temperatura toglieva energie a chi era già spossato dalle avverse sorti del conflitto. Carlo Scorza, segretario del Partito nazionale fascista, espresse il proprio stupore per l'arrendevolezza mostrata da Mussolini in quella circostanza. «In quell'atmosfera più che pesante, addirittura cupa», scrisse nel libro La notte del Gran Consiglio, pubblicato nel 1968, «mi sentivo ormai abbandonato da lui». L'impressione fu quella: che il duce fosse caduto in uno stato di prostrazione, che non avesse più voglia di lottare. Appariva stanco, sfiduciato, depresso. Era pallido in volto (ed era debilitato dall'ulcera). Nelle settimane successive si sarebbe più volte definito «un uomo per tre quarti defunto»; in una lettera al tenente Alberto Faiola (il suo controllore nella prigionia alla Maddalena) si descrisse come «un morto di cui non si annuncia ancora il decesso». E una volta disse in modo esplicito: «Forse sarebbe stato preferibile che il mio destino si compisse il 25 luglio». Nel comportamento tenuto quella fatidica notte aveva anticipato questo genere di sentimenti. Intervenne pochissime volte nel dibattito; si decideva la sua sorte personale, e lui agiva come un arbitro, un giudice al di sopra delle parti. Carlo Scorza si persuase negli anni successivi che sarebbe bastato mettere in votazione prima l'ordine del giorno del partito «che lui mi aveva ordinato di compilare, che aveva corretto e approvato». E, invece, quando venne il momento di votare; «con voce tranquillissima», Mussolini annunciò: «Gli ordini del giorno saranno messi in votazione secondo l'ordine di presentazione. Apro perciò la votazione sul primo: l'ordine del giorno Grandi». Per quanto siano stati scritti centinaia di libri sulla seduta del Gran Consiglio, per quanto tutti i superstiti abbiano contribuito a ricostruire fedelmente ogni attimo, ogni parola detta, ogni espressione sul volto dei protagonisti, manca una interpretazione autentica dell'atteggiamento di Mussolini. Era, probabilmente, convinto che Vittorio Emanuele non lo avrebbe tradito (lo disse anche, durante la riunione: «Quando io parlerò al re, domani, di questa seduta, egli mi dirà: "Qualcuno dei vostri vi abbandona. Ma io, il re, sono con voi"»); forse era esausto (per Luigi Federzoni il duce era «il grande attore invecchiato che per la prima volta nella sua grande carriera non sapeva la parte e si impaperava»); può darsi che cercasse, anche lui, una via d'uscita da una guerra che sembrava definitivamente compromessa (anche se, in un suo intervento, rabbioso, durante la seduta, tentò il colpo di teatro: «Potrei comunicarvi una grande notizia relativa ad un importantissimo fatto che capovolgerà la situazione della guerra a favore dell'Asse. Ma preferisco non darvela, per ora»). Forse tutti questi elementi giocarono insieme. Forse Mussolini si sentiva già «un uomo per tre quarti defunto», un eroe scespiriano, o un personaggio simile all'invocazione manzoniana dell'Adelchi («O re dei re, da un tuo fedel tradito, dagli altri abbandonato»): quando Scorza annunciò l'esito del voto (diciannove sì, otto no, una astensione), il duce commentò, con tono indifferente: «Signori, con questo ordine del giorno, voi avete aperta la crisi del regime» (nel suo diario, Dino Grandi ricorda parole più nette: «Voi avete ucciso il fascismo»). L'ultima interpretazione, in ordine di tempo, è quella fornita da Paolo Nello nella biografia di Dino Grandi, pubblicata pochi giorni fa: «Mussolini covava ormai per i tedeschi un risentimento tale da tracimare in autentico odio, anche se non palesabile per evidenti ragioni». E questo spiegherebbe anche l'attenzione con cui il duce ascoltò l'intervento di Ciano (il «generissimo») a favore di uno sganciamento dall'alleato che «non sarebbe stato affatto disonorevole, dati gli innumerevoli tradimenti dei tedesch