Le «torri» fanno da sfondo, il palco avanza dov'era una volta la platea. Alberto Cupido-Don Josè: «D'estate questa città merita spettacoli all'aperto»
La passione amara di José in mezzo ai ruderi delle terme di Roma imperiale. Torna l'opera nello spazio estivo della tradizione, torna dopo dieci anni, due lustri dal gran rifiuto del sovrintendente archeologico Adriano La Regina. Torna, anche se con un compromesso che salva spettacolo e millenarie vestigia. Non più il palco - e dunque riflettori, macchine sceniche e via «profanando» - tra le due moli, ma dove dieci anni fa era la platea. Salvo dunque lo sfondo suggestivo. Però ridotto della metà lo spazio per il pubblico, che arretra per far posto al proscenio. Domani sera il debutto, in una serata capitolina al fulmicotone. Perché ci sono pure Lou Reed alla cavea dell'Auditorium e Caetano Veloso a Piazza del Popolo. Carmen di Bizet, dunque, per il Teatro dell'Opera. Sotto la regia di Francesco Esposito e la direzione di Michel Plasson, lei è il mezzosoprano Sonia Ganassi, Escamillo il baritono Ildebrando D'Arcangelo. E lui, Don José, è Alberto Cupido, già molte volte applaudito sul palcoscenico di piazza Beniamino Gigli. Cupido, chi è il suo Don José? «L'ho fatto molte volte anche a Firenze nel '93 con Mehta. È un personaggio introverso che accumula tensione dall'inizio alla fine e poi esplode nel finale con l'uccisione della gitana: è come se si liberasse da un incubo, da un desiderio inappagato, da un amore mai completamente vissuto. Un amore che gli costa moltissime rinunce, anche a un codice di comportamento, a valori saldi appresi dalla famiglia. Nel racconto c'era un antecedente. Aveva già accoltellato una persona, per questo era entrato nell'esercito. Non è un ragazzino per bene, pure ha valori e radici sane, ma il suo destino è segnato: una tempesta che comincia come piccolo venticello e diventa un uragano contro il quale non può far nulla. Un personaggio molto combattuto, un ruolo che dà soddisfazione perchè ha grande carica emotiva: più prende forza e viene espresso da movimento e canto e più diventa è affascinante». Dell'allestimento, che pur in tanti sarebbero indotti a considerare grandioso per lo sfondo, dice che è «minimalista». «Lo spazio archeologico è stato concesso con grande cautela, quindi siamo lontani dalle mura. Il palcoscenico è più piccolo di una volta e si è dovuto fare di necessità virtù. È quasi vuoto, con proiezioni simboliche sul fondo (i fiori, una spada da torero)». Quanto al cantare en plein air, spiega: «Nell'86 cantai Lucia a Caracalla, e fu forse l'ultima produzione all'aperto. Ora rientro con la Carmen: anche questo forse un segno del destino. In questa occasione saremo un po' amplificati come avveniva allo stadio Olimpico per Turandot e Tosca, che furono per me un'esperienza bellissima, un'operazione, dal punto di vista mediatico, molto importante. A Roma d'estate gli spettacoli vanno presentati all'aperto». I suoi modelli? «Gigli, Di stefano, Lauri Volpi, la scuola italiana, per il francese bisogna tener conto della lingua e dello stile: richiedono maggiore eleganza e raffinatezza. Carmen non è ancora un'opera verista: bisogna evitare eccessivi manierismi e cercare una recitazione più naturalistica ma senza eccessi, con spontaneità: il personaggio deve essere credibile». Ma come mai i tenori sono un genere in via di estinzione? «Forse è una questione di scuola, di struttura della scuola in Italia. In America si studia bene. Insegnare è difficile, chi non può farlo non dovrebbe farlo». Se poi proviamo a chiedergli il sogno nel cassetto, il tenore ligure è prodigo di parole: «Ho fatto circa sessanta ruoli, ma mi manca il Cid di Massenet o L'Africaine di Mayerbeer, opere inconsuete. A dicembre tornerò a Roma per la inaugurazione con Gelmetti con la Marie Victoire di Respighi, mai eseguita. Mi piacerebbe cantare con Abbado e Kleiber e ancora con Muti e Mehta. Le grandi bacchette ti mettono in condizione di dare il meglio».