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di GIAN LUIGI RONDI OLIGARCH, di Pavel Lunguin, con Vladimir Mashkov, Maria Mironova, ...

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Però, salvo qualche abile ricerca sulle immagini che al suo esordio, con «Taxi Blues», lo ha fatto premiare a un festival di Cannes, si è sempre ispirato, per i suoi schemi, a quel cinema che a Hollywood fa spettacolo, come in «Luna Park», nella «Vita in rosso» ed anche, sia pure con qualche merito, nelle «Nozze». Della stessa pasta il film di oggi. Al centro, un faccendiere d'alto bordo che, insieme con un gruppo di amici fidati, riesce a far fortuna sfruttando tutti i sistemi di un capitalismo occidentale imparato presto. Per arrivare sempre più in alto, naturalmente, deve servirsi dei nuovi poteri nelle cui fila non tarda a imbattersi in una corruzione che favorisce sempre di più i suoi piani, perfino quando trova complici dietro le mura del Cremlino. Ma i nemici non gli mancano, tra i concorrenti delle sue imprese, sempre molto ai margini della legalità, e a un certo momento anche tra un gruppo di politici che, oltre al potere mirano con avidità smodate anche al denaro. Scorrerà il sangue, tra le spire di una lotta senza quartiere, il faccendiere però, dopo esser stato creduto morto in seguito a un attentato punitivo, riuscirà a organizzarsi una rivincita. In un clima di faida. Il racconto, che si snoda attorno a quella supposta morte, è frammentato e reso spesso confuso da continui ritorni all'indietro nella costruzione dell'azione, infittita di personaggi ora misteriosi, ora furbescamente allusi, ora oscuri, in mezzo ai quali la regia si muove solo per suscitare le tensioni dei thriller americani. Il protagonista, duro e risentito, è Vladimir Mashkov, che si ricorderà nel «Ladro» di Pavel Cuchraj.

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