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di ANNA CINZIA TIENI VOCE ferma e tono gentile, Vittore Branca racconta il suo Novecento.

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Una ricerca spesso difficile, una lezione imparata da un uomo coraggioso, Papa Paolo VI, ai tempi in cui Vittore Branca lo conosceva ancora come Cardinal Montini dandogli del tu. Parla con entusiasmo, Branca. E solo su un argomento è reticente. Appunto il laticlavio chiesto per lui da Galan, presidente della sua regione, il Veneto. Perché, quando gli chiediamo se è contento all'idea di poter diventare senatore a vita, lui si schernische con una risata, che pare scaramantica. E non dice di più. Una grande forza sostenuta da rigore e disciplina. Fu il Cardinal Montini a trasmetterle l'amore per la verità, professor Branca? «Era un uomo gentile e cordiale, e molto riservato. A Macerata, durante l'occupazione nazista, volle essere arrestato con noi che difendevano la libertà del nostro Paese. Diceva sempre che la sua vita doveva essere una testimonianza della verità. E che la vera ricerca della verità alla fine è sempre una ricerca di Dio, verità somma. Io ho imparato a vivere dello stesso bisogno, accertare la verità ad ogni livello, nella storia, nell'opera d'arte, nella vita». Ad ottobre uscirà il volume «Protagonisti del Novecento» (Aragno Editore). Chi sono i suoi protagonisti per questo secolo? «Personalità che ho incontrato nel corso della mia vita. Tanti li ho conosciuti a Firenze, a Parigi, a Venezia. Pensatori politici come Croce, De Gasperi, Hailè Selassiè, Ortega y Gasset, scrittori con i quali ho stretto forti amicizie come Carlo Bo, Palazzeschi, Goffredo Bellonci, Graham Greene, Andrè Malraux, Emilio Cecchi, Arthur Koestler. E ancora, poeti come Montale, Ungaretti, Ezra Pound, uomini di teatro come Pirandello, e quattro personalità di grande valore poi diventati Papa Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Naturalmente nel libro io non faccio analisi del loro pensiero, i miei sono piuttosto dei ritratti "ravvicinati", ritratti vissuti, racconti aneddotici di personaggi che hanno fatto la storia di questo Paese». Con chi ha nutrito una forte condivisione di pensiero? «Con Giovanni Gentile, con Ortega y Gasset, con Vittorio Cini. Con Montale eravamo amici già da studenti. Poi, quando con Carlo Levi dirigevo a Firenze "La Nazione del Popolo", a Montale affidai le cronache teatrali. A volte andavamo a teatro insieme. Veniva anche mia moglie. Montale si divertiva a fingere di non capire gli intrecci dell'opera. All'uscita del teatro, mia moglie mi chiedeva: "Vittore, ma come farà Montale a parlare dello spettacolo?". Invece poi Montale arrivava al giornale e in quaranta minuti scriveva degli articoli splendidi. Lui era così, giocava. Nel '48 invece, andai a trovare Croce che aveva ottant'anni. Vennero anche altri suoi devoti che si complimentarono per la sua splendida forma. Lui a un tratto rispose: "Eh, a ottant'anni o si perdono le gambe o si perde la testa. Ieri ho visto Nitti (anche lui ottantenne, ndr), camminava benissimo"». E come è nato invece il grande amore per Boccaccio? «Frequentavo il terzo anno alla Normale di Pisa. Feci un'esercitazione sul Boccaccio che venne pubblicata. Quando andai a chiedere la tesi, Momigliano mi disse: "Hai cominciato così bene con Boccaccio, perché non finire con lui?". Scopersi in seguito di essere nato con il suo stesso quadro astrale, in più il mio secondo nome è proprio Giovanni, dunque un destino forse». Che cosa rappresenta il Decameron? «Un grande poema di tutta la società borghese dell'epoca. È la grande commedia umana dopo la Divina Commedia. Un'opera che non è solo una raccolta di novelle, ma una cornice del tempo e dei suoi protago

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