di CARMINE MASTROIANNI Un ministro italiano a guardia dei tesori dell'Iraq.
In questo luogo inaccessibile fino a pochi mesi fa, Saddam Hussein aveva voluto nascondere e proteggere oltre 615 tra corone, pendagli, bracciali, vasellame intarsiato, statuette, tutti in oro e pietre preziose degni di un Alì Babà. Oggetti raffinati, testimonianza della grande civiltà assira che oltre 2600 anni fa regnava sulle terre della Mesopotamia «La terra tra i due fiumi», di cui s'ignorava l'esistenza prima degli scavi dell'archeologo iracheno Muzakin Hussein tra il 1988 e il 1992. Questi splendidi gioielli sono stati esposti per poche ore alla vista dei giornalisti di mezzo mondo per poi ritornare nelle casse di zinco in cui Saddam li aveva relegati. Pochi sanno che l'autore della «riscoperta» di questo tesoro reale è un italiano, ex ambasciatore oggi in pensione, Pietro Cordone grande esperto del mondo arabo. L'ambasciatore è l'unico italiano ed europeo chiamato a rivestire una carica, quella di ministro della Cultura, nel provvisorio governo americano in Iraq presieduto da Paul Bremer. Grazie al suo interessamento e ad una serie d'indizi è stato possibile recuperare un patrimonio che si riteneva perduto nei saccheggi dello scorso mese di aprile al Museo Nazionale di Baghdad. Va da sé che questo nuovo capitolo relativo al patrimonio culturale dell'Iraq riapre una dolorosa ferita: la perdita di molte altre opere d'arte, finite nel grande mercato antiquario internazionale. Con molto poco gusto e senso della cultura si è volutamente dimenticata la catastrofe culturale che si è consumata e si sta consumando in Iraq. È pur vero che molti reperti sono stati recuperati, poco più di 1.000, ma questo certo non può servire a sanare una lacuna incolmabile e arrestare i futuri saccheggi. Perché non si parla dei tanti siti archeologici abbandonati al loro destino in un momento particolarmente favorevole per saccheggiatori senza scrupoli? Che fine hanno fatto nella memoria di tanti politici, giornalisti, parole come Babilonia, Ur, Uruk, Mari, Lagash? Forse è troppo grande il peso di certe responsabilità, il rimorso di chi è stato spettatore impotente di uno dei più grande scempi compiuto a danno della cultura in questi ultimi anni. In una delle ultime calde serate di giugno, a Firenze, nello splendido Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, si è levato il grido sdegnato e insieme un appello accorato di uno dei nostri più grandi archeologi del Vicino Oriente, Paolo Matthiae, celebre scopritore della perduta città di Ebla (Siria). L'insigne cattedratico ha ripetuto il pericolo cui ancora è esposto il patrimonio culturale della civiltà mesopotamica; una civiltà in cui è nata l'idea di Stato moderno con la differenziazione dei poteri (Uruk) e che ci ha trasmesso uno dei primi codici di leggi universalmente noto: il codice di Hammurabi, 1600 a.C. Un plauso dunque all'opera del nostro ambasciatore in terra irachena, ma anche un caloroso invito a non voler abbagliare i riflettori dei giornalisti con il solo tesoro di Nimrud. C'è il tesoro di un intero paese da salvare, riqualificare e rendere nuovamente accessibile ai legittimi proprietari e agli studiosi di tutto il mondo. Non appare lecito oggi esprimere giudizi dal momento che si rischia sempre di essere partigiani, tuttavia ci sarebbero molte riserve da fare sull'atteggiamento piuttosto ambiguo di molte istituzioni dei paesi vincitori del conflitto nei confronti del patrimonio culturale iracheno. Sarebbero addirittura in progetto campagne di scavo, proprio quando il lavoro da fare è quello di recuperare e proteggere i reperti e i siti riportati alla luce negli ultimi decenni. Risuona sempre attuale il monito di Brenno ai Romani: «Ve Victis!». Di fulgida attualità mi sovviene la descrizione - fatta dallo storico romano Curzio Rufo - del saccheggio del palazzo reale di Persepoli, simbolo dell'impero persiano da parte di Alessandro Magno: «Là i Persi