Peppo, amico mai partigiano

Era sempre misurato, apparentemente tranquillo, disponibile, sorridente, su un fondo di serietà meditativa perpetua. Aveva cominciato a farsi, all'origine della sua carriera, una notorietà di scrittore d'avanguardia, con romanzi stampati sulla rivista il «Verri», poi in Adelphi, di cui era anche gran lettore e giudice, intimo amico di Roberto Calasso. Ma non credo fosse particolarmente attirato e attraversato dal gusto di rinnovare la letteratura nelle forme esteriori, di cui a volte ci si ammala a vent'anni per non guarire mai più. Aveva piuttosto il gusto della frase incisiva, breve, isolata e penetrante. Lo conobbi quando cominciò ad essere noto in ambienti più vasti, all'epoca del «Giocatore invisibile», che presentai ai lettori di Cortina d'Ampezzo assieme all'indimenticabile Ruggero Orlando: il libro era una sorta di giallo letterario, in cui un filologo era tormentato da un ignoto collega invidioso di lui. Il suo cavallo di battaglia erano i dialoghi, che egli veniva componendo con grande lentezza ma con penetrazione stupefacente. Fu subito amato dai critici. Più lenta fu la conquista del lettore, ma pian piano venne anche quella. Sapeva creare, come ne «La grande sera» atmosfere ambigue, personaggi sfuggenti e indecifrabili, che a volte svanivano dentro il misTero più vasto del mondo. La sua era una poetica sempre «in fieri». Non scriveva né pronunciava mai una banalità. Tutto ciò che produceva, anche i saggi, erano ricco di pensieri originali. Peppo era convinto che ognuno a questo mondo aveva in sé qualcosa di poetico, di tragico e di comico. Ma parlò anche di quegli scrittori destinati, secondo lui, a diventare gli antenati dei nostri postumi, ossia i classici dell'avvenire. Forse la fama più vasta gli venne da »Nati due volte», racconto e riflessione dolorosa e umanissima sugli handicappati, qual era il suo unico figlio. Rivedeva instancabilmente le sue opere, con amore di artigiano della parola e di poeta. Cercava anche il consenso, ma in modi così misurati e discreti che non sembrava il problema gli stesse veramente a cuore. Coltissimo, possessore di una biblioteca immensa (si parla di 40 mila volumi) gli piacevano le invenzioni singolari, le situazioni ricavate dalla letteratura, che rileggeva con punti di vista inventivi e geniali, a volte strani, sempre profondamente umani. Ed era scrittore sempre al di sopra delle parti, perché per lui l'arte, la poesia, la letteratura appartenevano a una regione ignota e lieta come il giardino delle Esperidi. La tragedia della vita l'ha visitato spesso, ed ora se l'è portato via, per collocare anche lui tra gli antenati dei nostri posteri.