Da bancario a romanziere. In «Nati due volte» la storia del figlio disabile
Il mio secondo libro, L'arte della fuga, è di taglio sperimentale, difficile, anche per i lettori più preparati. A questo libro sono molto affezionato. Contiene tutti i temi che poi ho sviluppato in modo più comprensibile». L'intera opera narrativa e saggistica di Giuseppe Pontiggia, di cui piangiamo con forte dolore la scomparsa, è racchiusa in quanto mi diceva tempo fa, quando insieme si tentava un arduo bilancio di tutta la sua produzione letteraria. Ben distante da «ismi» o prospettive parziali e occasionali dell'idea stessa di letteratura, Pontiggia è andato via via assumendo una posizione di estrema, rara coerenza nel paesaggio globale del nostro romanzo postdecadente, per delle ragioni oggettive che travalicano le mode e vanno a situarsi in un altrove che questo scrittore perseguiva con ferma coerenza e con stremato coraggio. Un paesaggio popolato, arricchito, di vocaboli e di idee: fermiamoci su quella parola, «fuga», così ricorrente nel suo dialogare critico, saggistico, inventivo. Il confronto tra fuga e invenzione è un binomio costante e tenacemente sviluppato, in due operazioni parallele, quella dell'intuizione libera del creativo da una parte, e la struttura portante del linguaggio, della parola come termine di mediazione dall'altro. L'uomo tende a fuggire dal presente, dalla vita che conduce, dall'ambiente che lo circonda per vivere altre esistenze o immaginarie o affettive. Muovendo da questo principio fondamentale, risulta chiaro che i suoi referenti non potevano che essere Joyce e Kafka, un altrove tumultuoso di parole/simbolo da una parte, l'allucinazione della visionarietà dall'altra. Il tutto nello spazio di una consapevole accettazione del presente come méta sapienziale dell'intero universo, dell'Occidente come dell'Orient. Privilengiando però il pensiero mitteleuropeo che emerge risoluto e robusto fin dalle prime opere, La morte in banca del 1959, un referto traumatico della attività giovanile di Pontiggia - poi abbandonata per immergersi nella letteratura - che per la prima volta fece balzare all'interno della sua riflessione il concetto di fuga. Nel 1978 Il giocatore invisibile configura un'azione mimetica che tende ad avvolgere la realtà, il vero storico. Intuire ancor prima che dire esplicitamente. Ecco l'arma vincente di Pontiggia, la discrezione che avvolge il disvelamento entro meccanismi di difesa difficili da penetrare, eppure resi espliciti da un'arte narrativa sopraffina e ricercata, tutta giocata sul privilegio del linguaggio come necessaria, indispensabile struttura di vita e di riflessione. Il raggio d'ombra del 1983, che gli valse il premio Rhegium Julii, è ancora lì a testimoniare, assieme a tutto il resto, del suo lavoro di saggista e di narratore, la capacità di celare e disvelare al contempo. Il Premio Strega del 1989 con La grande sera chiudeva la trilogia sull'«assenza», quanto manca all'uomo, un lontano altrove e tanto diverso dal presente,dove dominano sotterfugi, ipocrisie, finzioni. Ecco allora l'insistenza sulla funzione morale, etica, della letteratura. Anche quando a tentare di interferire sulla forza della creatività paiono intervenire angosce e dolori domestici come è accaduto in Nati due volte, del 2000, un romanzo duro e impietoso nel quale Pontiggia racconta della malattia dell'unico figlio, quell'handicap di chi, a guardar bene, disabile non era. Mentre invece sono gli altri, tutti quelli intorno, a esserlo. Tutto questo e tanto altro, il nostro amico di tante battaglie ha voluto anche spiegarlo nell'azione saggistica, anche se nell'arte narrativa il termine di identificazione è la chiarezza, l'onestà intellettuale: Il giardino delle Esperidi del 1984 e Le sabbie immobili 1991, fine satira politica attorno ai mali e ai disagi che un intellettuale senza lacci e lacciuoli è sospinto ad alimentare nel nostro paese, a I contemporanei del futuro del 1998, un viaggio conoscitivo nella classicità. Ancora, Vite di uomini non illustri, del 1993, e, tre anni dopo, L'i