Abbado, la ragione e il cuore nella musica
Un lutto della cultura e dell'arte nel mondo: l'Austria e la Germania piangevano. Ma da qualcuno si pensò al successore di quel gigante sul podio dei Berliner Philharmoniker. Furono gli stessi professori della leggendaria Orchestra tedesca, che ancor prima di Karajan era stata di Furtwängler, a scegliere un italiano. Mai accaduto. Quel direttore era Claudio Abbado. Se la ragione ed il cuore ha voluto la Natura che fossero nemici, una tregua ha loro conceduto generando il musicista milanese. Il quale è l'emblema, nell'arte dell'interpretazione moderna, d'una perfetta sintonia - a non dir simbiosi - fra le istanze ordinatrici dell'intelletto e le pulsioni del sentimento: tra il rigore dell'analisi ed il tumulto dell'essere. E nell'esito del suono da lui prodotto non già appare il frutto sottile e potente di questo processo dialettico fra i due eterni poli, bensí una realtà «magica» che guarda all'utopía: come se, una volta almeno, l'anima avesse trovato approdo nell'armonía. Il valore d'Abbado s'impone di là da ogni critica perché egli radica ed avvolge ogni musica che dirige nello spirito che le è proprio. Ciò accade mediante una realtà orchestrale netta, fulgidissima, affatto duttile, prorompente e dettagliata nei minimi particolari. Amichevole, aperto ai giovani, disponibile all'altro, il maestro non tollera però compromessi fra sé e la musica: da qui l'impeccabile rigore formale e la bellezza morale delle sue «lezioni». Che sono assai piú alte, colte e fascinose di quelle d'un Toscanini. Non hanno forse eguali le sue interpretazioni di Rossini, Verdi e Mahler. Oggi l'artista compie settant'anni d'età. Sono tanti, a considerare quante cose egregie hanno già accolte. Sono pochi per adempiere le cose nuove che si debbono generare, a stretta conseguenza, da quelle. Figlio d'arte, si è formato nel capoluogo lombardo e s'è presto imposto in tutto il mondo: ammirato dalla critica, idoleggiato dalle platee. Ma le sue passioni sono state, e tuttavia sono, noi crediamo, due: la Scala di Milano ed i Berliner Philharmoniker. La sua città l'ha allevato, encomiato, esasperato, cacciato, ed ancora lo rimpiange: con sacrosanto senso di colpa, avendolo accusato, lui direttore musicale dal '68 all'86, di scarso attaccamento al Teatro, e di non pagare le tasse debite: pusillanimità d'omuncoli. L'altro suo amore: i Berliner, lui ch'è di natura e di cultura musicista non meno tedesco che italiano. E ha trasformato i mitici strumentisti in una compagine moderna, aperta alle novità della musica novecentesca e contemporanea. Taluni gli hanno obiettato di non essere «autoritario» né sacrale al paro di Karajan. Che dire? Si sa, il lupo perde il pelo ma non il vizio. E lui non c'ha fatto caso. Ha fatto invece per Berlino piú del Borgomastro e del ministro della Cultura, già che attraverso i suoi esemplari progetti musicali ha relazionate le altre arti fra loro e con la propria, in una sorta d'alacre Accademia platonica. Non si esagera ad affermare che la capitale tedesca è rinata e mutata vuoi con la caduta del Muro vuoi con Abbado. Ora l'ha lasciata, e dirigerà il Festival di Lucerna, l'estate. Purtroppo la malattia. Un morbo che pochi anni or sono gli ha sbranato lo stomaco e l'ha risucchiato sull'orlo dell'abisso. Il maestro ha lottato e sofferto, ha disperato, ma da ultimo ha vinto la partita contro il Nulla. Ha vinto perché aveva alleata la Musica che gli ha dato l'antidoto pertinente. Ora il Maestro dirige con maggiore acutezza e determinazione, e l'ermeneutica beethoveniana, ad esempio, guadagna sorprendenti vertici d'umanesimo: d'ideale purezza. Non è ancora l'impressionante telluricità che scatenava il demonico Furtwängler. D'accordo, però ci sono ancora settant'anni di tempo, e dunque auguri, Maestro.