di LUCIO D'ARCANGELO SPESSO, quando si solleva il problema del «degrado» della nostra lingua, ...
Sarebbe impossibile, anche per i più accaniti assertori del laissez-faire, elevare, come si dice, il livello culturale mettendo da parte le forme linguistiche in cui quella supposta elevazione dovrebbe esprimersi, ed in realtà succede proprio il contrario: quello «stato culturale» che è in cima ai loro pensieri e che dovrebbe prescindere dalla lingua si basa su di una manipolazione linguistica tanto più pesante e coattiva in quanto attuata in modo subdolo e in nome di principi «politicamente corretti». La storia insegna che in certe situazioni o in certi momenti nella vita di una nazione per restituire coesione e dignità ad «un volgo disperso che nome non ha» occorre cominciare proprio dalla lingua. Basta ricordare la sorprendente rinascita del ceco ad opera di un'élite intellettuale che usava il tedesco e che lo abbandonò per costruire sull'idioma dei padri l' identità nazionale. La lingua non rispecchia semplicemente la cultura, ma, come dice Fishman «in vaste aree della vita reale 'è' la cultura, e né leggi né educazione né religione né governo né politica né organizzazione sociale sarebbero possibili senza di essa». Secondo alcuni rendere lo Stato corresponsabile delle sorti della lingua nazionale sarebbe uno sproposito, anche se tra coloro che l'hanno commesso si contano Giacomo Devoto e Giovanni Nencioni, che non pare siano degli scolaretti. Perchè mostrare tanta suscettibilità per una politica regolativa che trova il proprio limite nell'ordine naturale delle cose, quando poi si accettano senza batter ciglio le violenze più inaudite perpetrate contro il parlar comune? In realtà le accuse rivolte allo Stato tutore, non certo creatore, di lingua, sono prive di ogni fondamento. Quale Paese oggi nel mondo non ha una politica linguistica? Se nel 1928 Kemal Atatürk non avesse riformato l'ortografia turca, oggi i turchi seguiterebbero a scrivere con l'alfabeto arabo. La stessa storia dell'italiano rappresenta una clamorosa smentita a quanti, in buona o mala fede, seguitano a predicare la non ingerenza dello Stato in fatto di lingua o, peggio, a parlare di «lingua di stato». Una lingua letteraria come la nostra, è diventata lingua parlata di uso nazionale non per un colpo di bacchetta magica, ma per volontà dello Stato che dopo l'unificazione ne ha curato standardizzazione e diffusione attraverso l'istruzione pubblica, l'amministrazione, la pubblicistica ufficiale e la stessa stampa. Dire con troppa facilità che «la lingua va lasciata andare», senza sapere bene dove, non significa che si è rinunciato a scegliere delle strade. L'alternativa non è tra intervento e non intervento, ma tra «covert policy» e «overt policy», giacchè «apertamente o no, le decisioni sulla lingua e il suo uso sono prese ovunque, allo scopo di valorizzarle o svalutarle, per avvicinare gli individui o per allontanarli, per contribuire a una loro comprensione più profonda o a un loro distacco».