di FRANCESCO MANNONI LO SCRITTORE Vittorio Sermonti ha iniziato a studiare Dante da bambino, ...
Frutto di questa sua passione sono i tre saggi di commenti e approfondimenti che ha dedicato alla Commedia, pubblicati da Rizzoli - «L'Inferno» (640 pagine, 17,00 euro), «Il Purgatorio» (620 pagine, 17,04 euro) e «Il Paradiso» (623 pagine, 17,04 euro) - con la supervisione di due maestri della critica italiana come Gianfranco Contini e Cesare Segre. Incontriamo Vittorio Sermonti nella città di Dante, Firenze, nella hall di un albergo che si affaccia su piazza Santa Maria Novella, e gli chiediamo come faccia a rendere il mondo dantesco così familiare ai lettori e agli ascoltatori di oggi. «Io cerco di raccontare le idee di Dante e il contesto storico di cui sono figlie senza essere aggressivo o pedante, e tenendo conto del fatto che certi aspetti dell'opera dantesca non sono stati capiti fino in fondo. Il mio intento è ravvivare quell'atmosfera da "cabaret" che aleggia nella Commedia, le allusioni a una cronaca per noi ormai lontana nel tempo, le indiscrezioni, i pettegolezzi che si affiancano ai riferimenti storici, alle allusioni colte, alla mitologia e alla letteratura». Quando è diventato un così attento e appassionato lettore di Dante? «Ho cominciato a leggerlo da bambino, insieme a mio padre, e fin da allora vi trovai le risposte a tante domande. Dante, ricordiamolo, non è uno scrittore "per bene". Dice un mucchio di parolacce e usa spesso espressioni violente, uno stile quasi soldatesco, con l'amara faziosità che deriva dal suo impegno politico. In un certo senso mi ricorda la traduzione dei Vangeli fatta da San Girolamo: anche Gesù non si esprime per metafore né adotta giochi di parole, ma dice pane al pane. Io sono convinto che chi legge Dante è egli stesso un poeta, perché i grandi poeti possono essere letti solo da altri grandi poeti, capaci di recepire il loro linguaggio speciale». Cosa pensa, lei che con le sue letture dantesche ipnotizza migliaia d'ascoltatori, della recente interpretazione televisiva dell'ultimo canto del Paradiso fatta da Roberto Benigni? «La lettura di Benigni è molto emozionata e precisa, ma poco espressiva. Tuttavia ha il merito di recuperare Dante alla sua naturale popolarità. Dante è un poeta di grande erudizione e complessità, qualche volta persino astruso, ma è anche ostinatamente popolare, perché sta alla radice della lingua e della cultura italiana. Mi sembra che Benigni faccia un lavoro di divulgazione onesto, ed è lodevole il fatto che grazie a lui milioni di italiani ascoltino le parole di Dante. Ma il suo Dante non snida la carogna nascosta, il peccatore occultato in ognuno di noi. Perché Dante, in realtà, non fa che svelare il peccatore che egli stesso è». In che senso definisce Dante un peccatore? «Tutta la Divina Commedia è una complessa, articolata e graduale abiura. In ogni peccatore Dante riconosce una parte di sé. Con una onestà che non è molto frequente nella tradizione italiana, egli ha il coraggio di riconoscere negli errori degli altri i propri errori. Tutti i peccatori che incontra sono degli specchi, dei doppi di sé stesso. Questo tipo di esperienza conoscitiva e morale è una peculiarità di Dante, che forse aveva un bruttissimo carattere, ma possedeva un dono raro: la capacità di guardare questo mondo senza alcun filtro, ma anzi con un taglio di luce radente che fa emergere e ingigantisce ogni difetto. Questa capacità gli consentì di vedere la sua società con una chiarezza spaventosa. E la società di Dante assomiglia alla nostra molto più di quanto si immagini». Com'era la società in cui visse? «La società fiorentina tra il 1250 circa e il 1345, anno in cui scoppiò la grande peste, aveva caratteristiche molto peculiari, che la distinguono nettamente sia dall'epoca precedente si