Gran fiorire di umoristi nella letteratura italiana del Novecento, secolo fosco quant'altri mai.

Li riproponiamo, ora che viviamo con altrettanta insicurezza, in questa serie. Cominciando da Achille Campanile. di MARIO BERNARDI GUARDI C'È UN grande silenzio nella camera da letto di Piero, da tempo ammalato. Chi viene a fargli visita appare imbarazzato. Una gran fretta di andarsene e una preghiera alla moglie: «avvertici, se capita qualcosa di nuovo». Lui, intanto, si guarda intorno: saluta gli oggetti che da tanto tempo gli fanno compagnia ed anche loro lo salutano. Anche le boccette di medicine, le ricette, i contagocce amucchiati sul comodino prendono congedo dal morituro. Una mosca ronza implacabile attorno a un bicchier d'acqua e tamarindo. La moglie Teresa e la signora Ridabella si alternano al capezzale del povero Piero, divorando libri polizieschi, che, tra misteri e donne strangolate, comunicano loro un infinito senso di benessere. In una gabbietta, un uccellino non si azzarda a cantare e saltella in attesa di un po' di miglio e di una fogliolina di insalata; in una vaschetta un pesciolino rosso vaga disperato alla cerca di cibo. Ma par che in casa di Piero nessuno si ricordi che gli uccellini non vivono d'aria (che qui, tra l'altro è viziata) e che ai pesciolini rossi non basta l'acqua per andare avanti. Le ore trascorrono monotone, da lontano, sfumati, giungono i suoni della strada, Piero «ripassa» la propria vita come una lezione ancora non imparata a pieno. C'è da immalinconirsi? Dobbiamo abbandonarci ad amare meditazioni? Chi non piange non è degno di far parte del consorzio umano? Beh, i grandi umoristi sono tali proprio perché riescono a trasformare anche un dramma, anche una tragedia in occasione del sorriso, di riso e qualche volta anche di una liberatoria risata fragorosa e feroce. E non perché ci insegnigno la mala arte della crudeltà, ma piuttosto perché ci ammaestrano a sostenere, ci si perdoni il gioco di parole e l'appropriazione kunderiana, l'«insostenibile leggerezza dell'essere». L'umorista ci fa la morale senza ricorrere a prediche pesanti, è un filosofo che non ci lascia disorientati nei labirinti del pessimismo; anzi, ci fornisce una bussola tutta speciale. Potremmo definirla alta coscienza del ridicolo. Giuoco del sottile col grottesco, terapia del paradosso e del disincanto, esorcismo contro le illusioni. «Questa è la vita», ti dice l'umorista che, facendoti una caricatura della realtà, te la svelta, «falle una riverenza e uno sberleffo. E lo stesso prova a fare con la morte». Troppo difficile? Ma il romano Achille Campanile (nella foto) era un maestro in questa complicata disciplina. «Il povero Piero», pubblicato da Rizzoli nel 1959, lo dimostra. Si parla di morte, ma le lacrime vengon fuori dal gran ridere. Il romanzo è tutto un giuoco di sorprese e paradossi che, ci si perdoni il bisticcio, non ha fine nemmeno con la fine: Achilla, fulminante battutista (ma anche geniale manipolatore dell'«assurdo»: e spiace che tanto tardivamente la critica militante si sia accorta che il nostro scrittore non sfigura per niente accanto a Ionesco e a Beckett), somministra il tutto, frantumando il senso comune, mescolando reale e surreale, facendo a pezzi le mille ipocrisie, i tic e i tabù, legati all'evento «morte». Manciate e manciate di luoghi comuni, di stereotipi, di frasi fatte e che hanno fatto la muffa, con parenti e amici che indossano maschere logore, imponendosi ruoli prevedibilissimi. Forse il loro cordoglio è falso? Ma no, non è così: diciamo che tutto rientra in un rituale. La vita è una cosa buffa, la morte lo stesso: e gli uomini recitano. Il povero Piero è un borghese, piccolo piccolo, acido e ottuso, astioso e permaloso: fa pena perché muore (ma quand'è che morirà davvero?) e Campanile gli sta accanto e lo consola, difendendolo dai soli «Guardalo! Par che sorrida». Forse perché prende tutti in giro?