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Gli inquieti professori di Lodoli

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Il doppio privilegio che è anche una condanna: forgiare ed essere forgiatiDall'attenzione per una fisicità troppe volte sgradevole («Il rinoceronte») alla filosofia di vita, elaborata aspettando l'arrivo di una nuova fiamma (&laq

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Parafrasando ironicamente un vecchio titolo di Augusto Frassineti («Misteri dei ministeri e altri misteri»), Lodoli fa campeggiare sulla copertina un «I professori e altri professori» che già da solo si presta a una cernita al cui interno, da una parte e dall'altra, emergono caratteri, emozioni, che per ragioni di comodo potremmo chiamare, come fa lui, odio, amore, stima, disprezzo, paura, fascinazione, insomma un gorgo vorticoso di emozioni contrastanti quanto si vuole, ma sempre primarie, che ti segnano per l'intera vita: non a caso, un insegnante che lo ha plagiato lui vorrebbe ucciderlo, e per fortuna non ci riesce. Perché un insegnante può anche produrre questo tipo di reazione, quando il suo linguaggio, le sue idee, le sue scelte, operano in termini così radicali su una psiche ancora acerba, e per giunta timida e remissiva, incapace di ribellarsi alla cattura. Eppure quel professore voleva solo insegnargli ad essere se stesso, magari ricordandogli l'amato Leopardi, ma non è detto che nella giungla della vita tutto questo sia un vantaggio... Bene, a verifica di un maturo equilibrio narrativo raggiunto felicemente attraverso un sotteso confronto, continuo, tenace (frutto della timidezza di cui si diceva) fra scrittura e descrizione, accumulo di materiali narrativi angosciosamente e pazientemente registrati e messi da parte, Lodoli parte dal duplice presupposto che come un insegnante può «rovinare» (positivamente...) un allievo, con altrettanta facilità e naturalezza può accadere il contrario. L'insegnante — il "professore" detto con un sottile velo di ironia — gode, o soffre, di un duplice privilegio, quello di forgiare o di venire forgiato, dell'una come dall'altra condizione, con dei momenti orrendamente cruciali in cui vien fuori un'apparente resa dei conti: la famosa cena di fine anno che tutti abbiamo patito come una deliziosa condanna, può servire anche ad un "redde rationem", come realmente accade nel racconto fra un cinico insegnante e una disperata allieva. Il racconto qui ricordato è anche una chiave importante per capire in quale misura gli studenti più autentici, più affrancati e liberi da ogni pregiudizio, riescano ad offrire un input all'insegnante che lo tonifica, e, diciamolo pure, lo convince ad amare un po' di più il suo lavoro (indipendentemente dalla «paga» che riceve, che è quella di un soldato). La cattedra è poggiata su un piedistallo, su una pedana, e le fattezze umane, prima di tutto l'obesità, son lì a disposizione di una scolaresca che si gode lo spettacolo, e ne fa tesoro di divertimento: accade alla professoressa obesa del racconto «Il rinoceronte», mentre una semplice lezione di guida (è un classico, non fosse altro che per l'accorciamento di ogni distanza) può diventare galeotta e far nascere un amore: il racconto si chiama ironicamente «Il catarifrangente». A chiusura della silloge il brano/chiave che fornisce un grumo essenziale di spiegazioni: si intitola «L'appuntamento», ma non finisce come nei celebri modelli di Beckett o di Buzzati: qui c'è la marcia indietro nei confronti della vita, c'è il bilancio mentre si aspetta, e quest'ultimo è colmo di verità ma anche di invenzioni, di tutto quanto accade fuori di noi, e quello che ci succede dentro, nel cervello, questo oggetto matrigno che gestisce ogni comportamento: «Ho camminato nel tempo come un pellegrino, o forse come un commesso viaggiatore, obbedendo alle stagioni e ai colori del cielo, cercando di piazzare le giornate, i pomeriggi: su per i tornanti, giù per le discese. Ho camminato e sono st

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