di ENRICO CAVALLOTTI MBAH! che dire? No, non è la gelosia, il busillo dell'«Otello» messo ...
Piuttosto, il capolavoro verdiano è stato disotellizzato: fino a ridursi a negazione, o parodia, o reperto ironico, od imbizzita parafrasi di quella lirica gemma che da sempre alberga nei nostri cuori, tolleranti fino ad un certo segno, però non oltre: considerata discrimine la decenza del prodotto propinato. A maggior responsabile del macello s'àdditi il regista russo Lev Dodin, che sciaguattando tra bislaccheríe pseduo-estetiche ha dichiarato essere il libretto di Boito dammeno della tragedia di Shakespeare, ragion per cui è d'obbligo comportarsi par consequence. L'ovvietà di tal giudizio critico, degna d'un'asinina lapalissade, equivale a quella del bischero cui piú garbi il romanzo «Morte a Venezia» di Mann che la sceneggiatura dell'omonimo film di Visconti. E allora? Via il coro come personaggio concreto e, in suo luogo, gente in frac simile ai commentatori della tragedia greca: gente immota sugli spalti della scena peraltro vuota e soffocata da pareti d'intarsio ligneo: ora bianco: il bianco di Jago e di Desdemona, ora nerognola: il nero d'Otello, a nessuno sfuggendo l'acuzie della sottile dialettica razzistica, onde il dramma monta, monta a soufflé. Regía minima, minimalista: praticamente nulla, che fa degli interpreti, poareti, dei broccoli trapassati da scattuzzi isterici; orripilanti i costumi fuor del tempo (e del senno): magari i lunicoli, magari i metallari neroborchiati, magari quello che ti frulla meglio nella capoccia fantasticante: al momento. Inchiodato come un Barabba al centro della scena, un catafalco, o letto senza materazzo, o trono senza reggiculo, ma dotato di rete per: cianciarvi, zompettarci su, coitare, strapparsi le chiome e torcersi le mani, financo pugnalare, all'uopo, giusto il plot. Fà: «Ma la direzione musicale del gran Zubin Metha ha saputo almeno cicatrizzare le ferite inferte all'Otello dalla regía birbacciona?» Mbah! Gli ha dato talmente dentro, la bacchetta dell'indiano, che ti pareva d'ascoltare, non già il sensuale capolavoro della Décadence padana, bensí una «Cavalleria rusticana» al barbecue, dei «Pagliacci» abbruciacchiati. E dài che tonitruava, il maestro, e annichilava nella bolgia del fracassío istrumentale pure l'intronata armata dei coristi infracchettati. Dice: ma e le voci dei solisti? Madonnabona! Un peggio Otello di Vladimir Galouzine (nella foto) non l'avevamo giammai patito: cantava come se ciavesse la bocca a tubero: a sfornar timbri impasticciati: pasticcî a lasagna, a cannellone, a vincisgrassi: a scodellare un Otello sbocconcellato, da fare assai ingrugnire il Verdi, nelle tacite dimore, e noi, acciochiti sulla poltrona teatrale. E lo Jago di Carlo Guelfi? Forse che maramaldeggiava viperino, da copione? Macché, anzi, l'esatto contrario: aprico e beneficente s'irrorava di misericorde voce: quasi ad effigiare il migliore dei mondi possibili, siccome raggiava la Weltanschauung leibniziana, or sono tre secoli ad un dipresso. A scamparla, la signora Barbara Frittoli, soprano puro e lattescente: eterea quintessenza d'un anelito metafisico o sia platonicamente iperuranico, ancorché fosse ella con Desdemona in un rapporto non meno anonimo di quanto lo avrebbe potuto stringere con una qualunque vittima dell'allupato sesso barbuto - o martire cristiana, o pagana, od eretica - vòlte a palpiti di sublimato canto. Al grato calare del velario, le contestazioni hanno travolti regista e Otello: rinculati d'un súbito. Ovazioni d'antica gratitudine per Metha; manierosi consensi agli altri. A nostro umile avviso, ad esercitare tolleranza, ci sarebbe stato bene un equanime «buh!» onnidirezionale.