Padroni di affari e malaffare
Un annuncio, e anche un invito, che riguardava generazioni piuttosto lontane da noi, ma che tuttavia finiscono per risultare terribilmente vicine in virtù di quel ritorno rischioso alla barbarie. Dopo due testi d'indagine, in cui l'opera di reperimento di campioni in negativo da esibire come prova e controprova del degrado rifletteva il nodo articolato del romanzo, ora Giuseppe Montesano, scrittore napoletano emergente che ha gettato davvero un bel sasso nelle acque un po' ferme della narrativa meridionale, napoletana in particolare, ha fatto un passo in avanti che riguarda l'esigenza primaria di penetrare nella situazione senza alcun indugio nel folclore. L'epicentro dell'azione narrativa è una Napoli che sta rischiando di diventare Eternapoli, per via dello scempio che vi sta compiendo da parte di una famiglia di imprenditori, archetipi di una condizione sicuramente più generale che avvolge l'intera città come in un abbraccio mortale in cui la vittima più sacrificale resta il simbolo della Bellezza, mitizzata quanto si vuole, e tuttavia sottoposta allo scempio di una resa« senza condizione. In questo caso, lo scrittore neppure ci prova a descrivere la Napoli del buon tempo antico: il suo impegno narrativo è tutto proiettato nelle imprese devastanti dei Negromonte, palazzinari senza molti scrupoli, miliziani di una new economy fatta di soprusi e di indebite appropriazioni del territorio, insomma padroni indiscussi della città. Una sequenza sorretta dalla continuità di quanto il nostro coraggioso regista Rosi aveva descritto in «Le mani sulla città». Quelle erano rose e fiori a confronto della devastazione presente, poiché l'intero nucleo familiare, dal pater familias all'ultimo giovane rampollo, son tutti ben impegnati all'interno di un gattopardesco Palazzo dove si decidono le sorti della decapitazione di una città. L'operazione ha una sua strategia precisa: aprire nuove strade allo sviluppo economico attraverso l'eliminazione massiccia di un nuovo che deve servire soprattutto alla praticità della vita, che poi vuol dire accumulare ricchezza a scapito della Bellezza, un simbolo tutt'altro che impalpabile e fantomatico, poiché si chiama con nomi precisi, il Golfo, il Vesuvio, tutti quei luoghi in cui la vita reale corre il rischio della virtualità, un'essenza ingiudicabile nei livelli estetici, del tutto fuori della portata del godimento interiore che proviene inequivocabilmente dal mito contemplativo della Bellezza, appunto. All'ingresso di questo teatrino in cui si rappresenta il degrado con repliche che proseguono all'infinito, c'è lo scrittore chiuso e nascosto in un demoniaco botteghino dove si matura il molteplice scempio: rapacità e sopraffazione ne sono gli ingredienti esibiti ad ogni momento, con quella buona dose di cinismo che vorrebbe far passare per utile al bene comune una condizione di mortificazione del singolo. Tutto questo viene raccontato in prima persona dal giovane Roberto, segretario/apprendista/discepolo di Cardabi, un bellimbusto, marito di Amalia Negromonte, generalessa senza esercito e al contempo sorretta dalla logica perversa di una «roba» di verghiana memoria, che tuttavia vive e consuma il necessario, indispensabile motivo di interpretazione e di proiezione nell'Italia di oggi, così sfilacciata e perciò così tanto bisognosa di cure di fondo: l'immagine dantesca di una Italia malata che si illude di sanare le proprie ferite girandosi più volte nel proprio letto a caccia di inutili lenimenti, è lì a testimoniare la lucida profezia del grande veggente fiorentino. Romanzo di denuncia quindi, ma debitamente distante dall'ipotesi neorealista e dai suoi pasoliniani cascami. Montesano utilizza un impasto linguistico che potrebbe trarre un inganno: «E mo' che fai? Roberto, lascia stare il coltello, non scherzare... Ah, te fa schifo