«Non mi hanno dato l'oscar per "Chicago". Sono brutti e cattivi»
Secondo altri, è addirittura brava. Renè Zellwegger continua la sua inarrestabile ascesa verso l'Olipmo hollywoodiano infilando un successo dietro l'altro. Dopo «I diari di Bridget Jones» e «Chicago» è la volta di «Down with love», diretto da Peyton Reed, giovane esordiente che viene dall'esperienza teatrale di Broadway. Accanto a Ewan Mac Gregor (il protagonista di Moulin Rouge) la Zellwegger è riuscita a rinverdire i fasti della sophisticated comedy degli anni '50, facendo il verso a Doris Day. Nel nuovo millennio la Zellwegger rappresenta ormai il modello di riferimento della giovane donna americana. Nel film appena uscito - ambientato nel 1963 a New York - lei interpreta il ruolo di una donna che lotta per affermare il diritto alla propria indipendenza in un mondo controllato dai maschi. Come mai nel 2003 un film come questo è stato inserito in un ambiente sociale che non esiste più da molto tempo? «Ho accettato questa parte proprio per questo motivo. L'idea era proprio quella di ricostruire una commedia come le facevano un tempo. Poi c'è un altro motivo. Volevamo fare un film molto leggero». Come donna, oltre che come attrice, pensa che la posizione della donna nel mercato sia cambiata molto rispetto a quarant'anni fa? «Leggendo i libri e guardando i vecchi film, mi sembra ci sia stato un apparente cambiamento, quantomeno in America. Dopotutto al governo ci sono solo maschi, e su 200 presidenti di banche, in Usa, c'è un'unica donna, il che equivale allo 0,5%. Prima di arrivare al 50% forse dovranno passare altri mille anni. A Hollywood, però, è diverso. Qui siamo un po' più alla pari. Ma credo sia la stessa cosa dappertutto». C'è rimasta male per non aver vinto l'Oscar con «Chicago»? «Malissimo». Perché non glie l'hanno dato? «Perché sono stupidi e cattivi. Siccome è la bambina dentro di me ad aver sofferto non posso che rispondere così. Per noi attori, non vincere qualcosa è sempre inconcepibile. È una confessione che faccio al pubblico a nome di tutti, è davvero così. È per questo che partecipare diventa una sofferenza tragica. È l'esatto contrario del meccanismo delle Olimpiadi dove dicono che ciò che conta è partecipare. Qui a Hollywood è importante vincere e basta, tutto il resto è un regalo del destino». E il destino com'è stato finora con lei? «Non posso certo lamentarmi. Dieci anni fa sono arrivata a Los Angeles e non sapevo neppure se sarei riuscita a sopravvivere più di un mese. Mi è andata bene. Ho avuto fortuna». Pensa che la fortuna sia importante in questo tipo di lavoro? «È importante sempre, lo diceva anche Napoleone, credo. Poi penso che sia importante il proprio carattere. Per fortuna io ho un manager e un agente che trattano per me, se dovessi negoziare di persona farei tutti i film gratis». Come mai? «Sono molto fragile. Per me ciò che conta è essere accettata, adorata, amata, vezzeggiata. Per questo faccio l'attrice. Sono priva di qualunque altro talento artistico, non so dipingere, non so suonare, non so scrivere. L'unico modo per rimanere e lasciare una immagine di sè, per me è vivere sullo schermo. Il cinema è tutta la mia vita. Ma sono convinta che è così per tutti i miei colleghi, solo che non lo dicono».