«Appennini», una realtà spietata
Per me, la vita più che movimento è parole: con le parole mi inserisco nei progetti e nelle scelte altrui, e le parole altrui mi fanno vedere anche quello che non è alla portata dei miei occhi». Non c'è immobilità nel processo di conoscenza di chi scrive, ma neppure la possibilità di muoversi liberamente, la solitudine non è forzata ma necessaria, c'è troppa «puzza di pietà» tutt'intorno per venire invogliati a raccontarla schiettamente, ma al contempo «spiarla» fa crescere la voglia di riferirla, non per delazione, certo, ma per capire e far capire, per condividerla, e farla condividere a quelli cui la racconti. Erano questi i paletti necessari per comprendere, e far comprendere, le ragioni di fondo di una convivenza difficile fra due fratelli che nulla condividono tranne che la coppia che li ha generati, e lo scenario antico, nuovo e futuribile dell'Appennino reggiano, un ribollire di caratteri e di comportamenti, di cui i due riflettono la difforme campionatura. Uno, Fabio, fa l'avvocato e scrive, l'altro, Aldo, è un dilettante di professione: lo è quando dipinge, quando scrive musica, se recita la parte necessaria e indispensabile dell'uomo. Alla frenesia del primo dei due, che organizza la sua festa di compleanno con un anno di anticipo, l'altro risponde usando l'aneddotica fraterna per riempire le serate con gli amici, e riferire la condizione di dipendenza in cui l'altro vive, ben celato nel marsupio del fratello dove si nasconde per raccontare del suo folle appetito di luoghi, di figure, di aneddoti, come in un castello di destini incrociati che non lascia aperture sufficienti verso il pulsare della vita. L'universo circostante è vario e diversificato, nei comportamenti come nelle future prospettive: c'è colui che interpreta, anche con una certa verve poetica, i pensieri spontanei di una terra reattiva e forte, che non transige né scende a compromessi, e coltiva in sé il coraggio di cambiare le regole del gioco, se non addirittura il mondo, ma c'è anche chi sogna, chi ha rispetto dei valori segreti dell'utopia, e ne accarezza le morbide strutture con una intransigenza che potrebbe anche sembrare una stridente contraddizione: su un punto probabilmente ci si incontra e si riflette, la voglia incontenibile di essere «altri», diversi, fuori del coro per poter dire ognuno la sua, tenacemente. C'è il passato, la Storia, a salvaguardare il diritto alla verità della coscienza, e su questo punto non si transige, si è tutti all'unanimità. Forte di un passato tutto concentrato in una nobile tradizione comunale, la gente di questa terra muove i propri passi su quelli dei predecessori, inesorabilmente, e non per timore della novità, bensì per il rispetto che si deve alle risultanze della Storia. Perciò, nelle arti come nei mestieri, l'ossequio rispettoso del mito è sacrosanto, ed è su quest'ultima componente che Crovi gioca le sue carte e produce le pagine migliori, le più calde, dell'intero romanzo. Nell'incrocio dei destini di cui si è detto, Crovi sembra voler privilegiare le persone, le figure umane più sottesamente di quanto non abbia fatto dieci anni fa quando scrisse La valle dei cavalieri, allora vincitore del Campiello. Qui invece esiste, e serpeggia con consistenza di appropriazione culturale, la strategia di