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di ENRICO CAVALLOTTI DIVORATO da insaziabile spleen, infiammato dalla cognizione del proprio ...

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e soffriva le delusioni che premevano dietro quella facciata tempestata di spirituali blandizie. Finzione e verità, arte e vita, simbolo e materia, proclama e confessione s'intrecciavano nel rutilante ingorgo dell'uomo col musicista: in ambidue le contraddizioni dell'essere celebravano la loro epopea. In posa iperbolica, cavalcava Berlioz, napoleonide, lungo i meandri delle imagini fittizie, dipoi, d'un súbito, si ritraeva, ed alle fanatiche smoderatezze, alle tempeste dell'esaltazione subentrava la bonaccia d'uno spirito poetico: rinculato a Sant'Elena. Musicista dalla poliedrica personalità, enimmatico, inetichettabile, incompreso o, per piú pulito dire, frainteso da quasi tutti i contemporanei ancorché godesse della considerazione di Paganini che, ascoltato un suo concerto, gli fece commosso dono della somma di 20.000 franchi: sommetta che, a quei tempi, bastava a vivere tre quarti (con giudiziosa parsimonia: quattro quarti) dell'esistenza; e negletto manco poco dai bischeri tempi nostri, cui garbano altri campioni della «Romantik». Con questo francese d'alto bordo si conchiude oggi (con repliche lunedí e martedí prossimi) la stagione sinfonica di Santa Cecilia al Parco della Musica, dirigendo Myung-Whun Chung sul podio dei Ceciliani «Roméo et Juliette, sinfonia drammatica per soli, coro ed orchestra op.17» (tra le pagine non corruschissime del Nostro). Taumaturgo d'opificî sonori memorandi e badiali, furia sontuosa e smorigerata, strumentatore perfetto: «stupefacente rivelatore di colori orchestrali» (Henri Prunières) sí che il suo «Grand traité d'instrumentation et orchestration modernes» è tuttavia esemplare, Berlioz a fraintenderlo non furono soltanto esecutori ma fini esegeti e compositori quali Rossini e Cherubini. E Mendelssohn dall'empireo d'un'eletta aristocraticità di spirito e di maniere nutriva per il collega «foudroyants» schietto spregio: «La sua strumentazione è tal spaventevole guazzabuglio, tale incongruo pasticciaccio che uno dovrebbe lavarsi le mani appresso aver maneggiata una tra le sue partiture». Però ci rispondeva Schumann con un'analisi della «Symphonie fantastique» a tutt'oggi insuperata, che coglieva il centro dell'ethos berlioziano nella specificità essenzialmente orchestrale e sinfoniale dell'invenzione e nella «natura d'una forma concepita per amplî, susseguenti pannelli variati, in luogo dei classici itinerarî degli sviluppi». Come s'è anche rilevato da Henry Barraud nel decisivo studio sul maestro francese (ma lungo il catalogo bibliografico non si sottostimino gli eccellenti contributi di Rolland, Barzun, Goldbek, D'Amico, Boschot, Baillif e Dickinsen) Berlioz, non ostanti le apparenze e l'ostentata ammirazione per papà Voltaire (novello nonno all'Europa), era spirito affatto religioso: la sua «religio» non volgendo alla Divinità ma alla sacralizzazione dell'amore in sé stesso, da cui discendeva il vertiginoso sentimento dell'insoddisfazione e l'ansia che lo turbavano, eccitavano, prosternavano. Ancora: Berlioz era mosso da un'«ipertrofia dell'imaginazione», la quale, nel bene, nel male, inondava sia la dimensione artistica (voilà gl'interminati eserciti orchestrali e corali a sublime decoro del «barocco» sonoro) sia il portamento intellettuale (voilà il narcisismo sensuoso, il senso di colpa e, ça va sans dire, la nevrosi). Ancora: Berlioz era influenzato da una «sensiblerie» sovracuta che gli incrodava l'esistenza sui carboni ardenti e lo disarmava al cospetto della molesta indifferenza del mondo d'attorno. Tali dati convergevano in un'urgenza d'assoluto che, non sfociando nella sua meta superna, s'indirizzava verso tutto ciò che il maestro toccava: od avvertiva: o subiva, senza forte discernimento del valore reale delle sue esperienze.

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