Per il professore dell'Università di Milano la crisi attuale può essere superata solo con grande onestà intellettuale
Ma allora è ancora possibile fare arte? Lo abbiamo domandato a Stefano Zecchi, docente di Estetica all'Università Statale di Milano e autore di diversi libri di successo. Lei ha sostenuto che l'arte si dovrebbe in certo modo riappropriare di spirito politico. Può illustrarci questo concetto? «Per "spirito politico" intendo l'idea di impegno che l'arte dovrebbe avere rispetto ai tempi attuali: non mi riferisco ovviamente a una particolare visione politica o partitica, ma a una tensione capace tanto di scontro e di passione quanto di confronto e di dialogo. In altre parole, parlo di una dimensione alta e nobile dell'impegno politico, capace di generare un sentimento altrettanto alto e nobile». A suo parere a cosa è stata dovuta la crisi in cui l'arte versa ormai da tempo? «La ragione principale è lo sperimentalismo, una corrente che nacque in seno alle avanguardie artistiche, le quali sentivano la necessità di confrontarsi col "nuovo mondo" forgiato dalla rivoluzione industriale e dalla tecnica dirompente. Lo sperimentalismo è un'arte che non imita, non riproduce la realtà: col tempo degenera sempre più, anche perché lo pervade un nichilismo di fondo. L'incapacità di esprimersi diviene così il motivo conduttore dell'intera produzione artistica». In Italia lei ravvisa segnali di rinascita dell'arte? «Nulla muore e nulla nasce - almeno in via definitiva. Esistono cioè correnti carsiche, piccoli rivoli minoritari che permangono anche in tempi insospettati. Col tempo, poi, forme a lungo soggiogate riemergono. E dunque la rinascita sta ovunque permanga la voglia di ri-simbolizzare, di ri-sacralizzare, di ri-fondare metafisicamente. In campo letterario posso fare due esempi, quelli di Giuseppe Conte e Mino De Angelis. Anche il mio personale modello letterario di "mitomodernismo" vuole rispondere a quest'esigenza». Per quanto riguarda i riferimenti e i modelli stranieri, quale ritiene che sia il confine tra l'apporto culturale straniero fecondo e creativo e quello invece che sradica, omologa ed estrania? «L'arte non ha confini nazionali: e questo vale tantopiù al giorno d'oggi. L'omologazione, piuttosto, sta all'interno dell'arte stessa: si verifica ogni volta in cui si perde il riferimento alla propria cultura tradizionale - per la nostra arte, occorre evidentemente riferirsi alla tradizione culturale europea. Mi spiegherò con un'immagine: l'"alchimia" dell'arte sta nella sua formidabile capacità di avere le radici in profondità nell'humus della tradizione, e al tempo stesso le chiome frondose ben protese verso il futuro». In quale maniera il passato può rivelarsi una fonte di ispirazione, anziché un modello da ripetere? «Dobbiamo sempre e comunque fare i conti col passato: chi non lo fa si relega per ciò stesso nell'ignoranza. Il motivo è dunque sia di tipo metafisico, sia di onestà intellettuale. L'arte è infatti colta, e chi ignori il passato per grossolanità, provocazione o tracotanza non fa arte in modo serio». L'arte ha necessità di simboli per esprimersi? «Questa è una questione cruciale. Dal mio canto, ho voluto esprimere attraverso i miei libri la necessità ineluttabile di non smarrire il contatto coi simboli. Il simbolo, infatti, è un potente veicolo di comunicazione, e non si può pensare di poter attingere alla bellezza senza fruirne e - quindi - comprenderne il linguaggio. Il linguaggio simbolico è infatti il mezzo per rielaborare creativamente l'eredità che abbiamo ricevuto dal passato».