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di FRANCESCO MANNONI IL NUOVO libro di Susanna Tamaro, «Fuori» (Rizzoli) è un viaggio dentro ...

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Una condizione che la Tamaro descrive lasciando trapelare il suo sconforto per l'indifferenza che condanna senza appello tanti immigrati. Ha voluto fotografare questi aspetti della nostra società egoista, nonostante il tanto sbandierato spirito di fratellanza cristiano? «Viviamo in tempi molto complessi, socialmente e umanamente. E le persone hanno pochi mezzi per poterli analizzare e interpretare. Il maître à penser della nostra epoca è la voce dei mass media, una voce che può anche sembrare caritatevole o umanitaria. Ma i buoni sentimenti, se non sono radicati in una profonda idea di bene, non sono altro che foglie d'autunno, il primo refolo di vento le porta lontano. Così la nostra società, apparentemente aperta agli ideali umanitari, nella sua realtà più privata mostra un volto incapace di reale fratellanza». Nel primo racconto una giovane madre indiana, clandestina in Italia, si perde in mezzo a una tormenta di neve, e il suo bambino muore assiderato. È una storia vera? «È accaduta vicino a Trieste una decina d'anni fa. Leggendo questa storia, ognuno dovrebbe domandarsi: cosa avrei fatto io? Avrei aperto o no quella porta? Non è una domanda scontata. Tutti abbiamo le nostre paure, le nostre insicurezze, i nostri momenti di nervosismo. Ma da essi, a volte, può dipendere la sopravvivenza di un altro essere umano». Nel secondo racconto una domestica filippina vorrebbe farsi suora, ma è molestata dal padrone di casa e decide di suicidarsi. Quale morale emana da questa vicenda? «In questo racconto c'è lo scontro tra due visioni del mondo, o meglio il non rispetto che una ha dell'altra. Per il padrone di casa si tratta di un'avventuretta qualsiasi, uno sfizio esotico e senza gravi conseguenze. C'è l'idea che in fondo sia un privilegio anche per la ragazza. Ma la giovane filippina ha un altro mondo di valori di riferimento e questo episodio si trasforma in una ferita così grave da spezzare, per la vergogna, il senso della sua vita». Terzo racconto, e ancora un argomento di grande attualità: le adozioni dei bambini africani o asiatici. Il comportamento della madre adottiva è, a dir poco, deprecabile. «Anche questo racconto, purtroppo, nasce da uno spunto reale e rientra sempre nel discorso della difficoltà di mettersi in relazione con mondi tanto diversi dal nostro. La madre è animata dalle migliori intenzioni, ma a un certo punto qualcosa dentro di lei, che ella stessa ignorava, prende il sopravvento; e il bambino tanto atteso diventa la figura che minaccia il suo equilibrio. Non è una donna cattiva, ma si trova in una situazione diversa da come l'aveva immaginata, e non ha i mezzi, culturali ed emotivi, per affrontarla. Così si trasforma da vittima in carnefice». L'ultimo racconto, dove un vecchio è abbandonato dalle ragazze extracomunitarie che lo aiutavano a sopravvivere, mette in primo piano la condizione degli anziani vessati dai loro figli. Un'altra piaga della nostra società? «Ho scritto questo racconto nel 1992, prima che esistessero le cosiddette badanti. La nostra è una società in piena decadenza, perché non è capace di fare due cose fondamentali: educare i bambini e prendersi cura degli anziani. Il fenomeno delle badanti è piuttosto inquietante, spesso al limite dello schiavismo, e per questa ragione può facilmente sfociare in tragedie». Lei mette in evidenza, con tratti essenziali ma precisi, i mali della nostra società. Ha un'idea di come potremmo cambiare mentalità? «L'unica possibilità di cambiamento della società ormai risiede nella conversione del cuore, cioè nel percorso che ogni essere umano deve compiere per giungere alla comprensione del senso più profondo della vita. Se l'altro, il diverso, diventa fratello, non è più possibile chiudere la porta. Ma questa fratellanza non può più nascere da un'ideologia, bensì dalla percezione che siamo tutti figli di un misterioso Padre, lanciati qui sulla terra per un tempo quasi insignif

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