Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

di NANTAS SALVALAGGIO LO VEDO talvolta in piazza di Spagna, dove abita; ed è sempre un incontro imprevedibile.

default_image

  • a
  • a
  • a

Regista famoso, ma anche romanziere di insolita grazia («I cavalli della luna»), questo romano che molto deve alla lezione del Belli e di Trilussa ha un sottofondo sentimentale che pochi conoscono. Questa vena segreta è venuta a galla l'altra mattina, per puro caso: «Senti, Gigi, mi sono chiesto spesso se ti senti un cineasta che ogni tanto scrive dei romanzi, oppure uno scrittore che fa anche del cinema. Insomma, qual è l'hobby, e quale il lavoro?» «Il problema non si pone. Sono due cose talmente diverse. Il cinema è come la pittura degli impressionisti, che lavoravano col cavalletto all'aria aperta; scrivere invece è un po' come pregare, star dentro una cella in silenzio, a mescolare parole ed emozioni». Ma ci sarà stato un momento, quand'eri ragazzo, in cui hai avvertito il formicolìo della vocazione? «Da ragazzo non volevo fare né cinema né letteratura. Mi ero prefisso di diventare medico». E come t'è venuto in mente? Sei stato influenzato da una lettura, un film, o forse quel romanzo di Cronin, "E le stelle stanno a guardare"? «Non c'entra il cinema, e nemmeno la letteratura. Io avevo deciso di fare il medico perché mio padre era molto malato. Così un giorno gli ho detto: "Papà, tieni duro, io diventerò medico e ti guarirò"». E come ha reagito tuo padre? «Era a letto, soffriva, ma non ha potuto fare a meno di sorridere. Mi ha detto: 'Tu non farai il medico. Io non voglio che tu diventi medico per causa mia. Se vuoi farmi felice, devi seguire la tua vera strada. La tua autentica vocazione". Poco tempo dopo morì, e lui non ebbe più bisogno di un medico in famiglia». Sei stato orfano in età molto giovane? «Già. Come ha scritto Nizan, non permetterò a nessuno di dirmi quanto è bello avere vent'anni». Nei tuoi film storici («Nell'anno del Signore», «In nome del Papa Pe») riesci a fondere dramma e commedia, dolore e allegria. Anche tu sei convinto, insieme a Cocteau, che la tragedia è solo umana, ma l'ironia è divina? «Un uomo senza ironia è come un'automobile con una gomma a terra». Un mio amico inglese, che sta in Italia da molti anni ed è bilingue, ha scritto che Michelangelo Antonioni potrebbe essere il più grande regista di «cinema muto». Tu che ne pensi? «La definizione è suggestiva, ma oscura. Che vuoi dire?» Che la sequenza delle immagini è superba, ma il dialogo è irreale, incongruo. I personaggi di Antonioni non sanno parlare. «Ma questo è un problema antico, una palla al piede che il cinema italiano si porta dietro da tempo. Non abbiamo una scuola di dialoghisti, come in America. Da noi i Woody Allen sono rari come le mosche bianche. Alcuni giovani registi si sentono come Chaplin, e vogliono fare tutto: soggetto, sceneggiatura, regia, costumi, musiche. E magari anche le locandine per i cinema».

Dai blog