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La scrittura asciutta e rapida del senatore penetra la psicologia di un pontefice che si illuse di trovare la terza via tra potere assoluto e democrazia

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Un Papa che scappa da Roma in piena notte, travestito da pretino di campagna, sembra piuttosto una fiction, un canovaccio da film di Hollywood. Invece no, il successore di Pietro se l'è data davvero a gambe levate per sfuggire alla rivolta popolare. E' il novembre del 1848 e Andreotti descrive l'evasione del Pontefice dal palazzo del Quirinale nei minimi particolari, sulla scorta di documenti inediti. A tratti, sembra che al posto della penna usi la macchina da presa: vedi il Papa che si cambia d'abito come una Primula Rossa incalzata dal nemico; con cura si «dispone diversamente i capelli», sui quali passa «un lieve spruzzo di cipria». Poi inforca «spessi occhiali turchini» ed è «davvero irriconoscibile». Mentre leggi, ti viene naturale di pensare all'attore che potrebbe interpretare quell'avventura sullo schermo: Donald Sutherland? Al Pacino? O il Mel Gibson di un memorabile «Amleto»? Oltretutto, nel Pio IX che nasce Mastai Ferretti a Sinigallia, c'è qualcosa dell'inquieto principe di Danimarca. Succeduto al reazionario Gregorio XVI, bellunese, il nuovo pontefice solleva l'entusiasmo e le speranze dei patrioti con le sue aperture a una politica liberale. Ma è come accostare un fiammifero a un bidone di petrolio: il popolo si risveglia, si agita, segue le teste calde della rivoluzione e scende in piazza. A questo punto, è probabile che il papa si penta dello Statuto che ha concesso il 14 marzo del 1848, in contrasto con i suoi cardinali; ma è troppo tardi. Per cui non gli resta che scegliere: immolarsi a una folla inferocita, o cercare asilo altrove? Così si imbuca lesto nella sua carrozza, scortata da altre carrozze, fino a Gaeta, dove inizia il dominio dei Borboni. Trascorsi diciassette placidi mesi al sole del Golfo di Napoli, Pio IX rientrerà a Roma. Le truppe francesi, sollecitate con insistenza, stroncano la Repubblica Romana e cacciano la "banda Garibaldi". Ma Pio IX non sarà più l'uomo delle riforme. Con una lenta retromarcia, si avvicinerà piuttosto alla linea conservatrice di Gregorio XVI. E nel Sillabo, insieme alla enciclica «Quanta cura», prenderà posizione contro quelli che a lui sembrano gli errori del secolo: il naturalismo, il razionalismo, il socialismo, l'intervento dello Stato nelle questioni morali o religiose. Con una scrittura asciutta e rapida, Andreotti penetra la psicologia del papa tanto discusso e malamato. E spiega come fosse arduo, per lui, districarsi tra gli scogli e i marosi di un'epoca tormentata. Un mondo stava cadendo a pezzi, insieme al dominio temporale dei papi, e un altro mondo premeva all'orizzonte. Per qualche aspetto, la fuga notturna di Pio IX da Roma ricorda quella disperata di Luigi XVI da Parigi. In fondo, i due sovrani, pur vivendo in epoche e situazioni diversissime, hanno in comune l'illusione che una "terza via", tra potere assoluto e democrazia, sia possibile. Ma non è vero: quando salta il tappo di un regime oppressivo, saltano tutti gli equilibri. E i regnanti coraggiosi vengono sbalzati di sella. Una riflessione analoga l'ha fatta Michael Gobaciov a un convegno recente: «Anch'io avevo creduto nella perestroika, nella trasparenza liberale: ma la perestroika ha sepolto le mie illusioni». Un filo di pietà per il "papa incompreso" accompagna tutto il racconto di Andreotti. Al quale ho posto un paio di domande, di buon mattino, mentre lui stava già alla scrivania del suo studio a Palazzo Madama. Mi premeva sapere se condividesse quell'accostamento tra le due fughe alla vigilia del "redde rationem": Luigi XVI, re timido ma benintenzionato, somiglia per qualche verso all'innovatore sfortunato, Pio IX? «È un esercizio di scuola, ma lecito - ha risposto il senatore - come Pio IX, anche Luigi XVI aveva tentato un approccio più moderno, un'apertura verso le classi meno abbienti. Ma dovette capire presto che la rivoluzione era

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