Quelle cosine frutto del genio
Al Festival di Cannes la retrospettiva dell'opera completa di Fellini a 10 anni dalla morte
Un evento che le tante discendenti dalle "pettegole" di Hollywood sempre più onnipresenti a questo tipo di manifestazioni, diserteranno di sicuro per dar solo conto degli arrivi, delle partenze e dei capricci delle dive (o delle divette) del giorno. Non lo sanno, ma Fellini le avrebbe imitate, infastidito all'idea di dover assolvere a questi rituali. Ogni volta infatti che a Venezia, quando dirigevo la Mostra del Cinema, gli presentavo qualche suo film, se ne stava chiuso in albergo e mi diceva: «Amo il cinema, ma per me non c'è niente di peggio che vedere un mio film a un festival, con la gente attorno». Eppure "era" il cinema. Lo si può dire senza retorica e qualche volta, da critico, mi è capitato anche di scriverlo, ammettendo comunque che un'affermazione simile si poteva fare, negli anni in cui la scrivevo, oltre che per lui, anche per Kurosawa e per Bergman. Una triade che non riusciva di certo a rappresentare, nel momento del maggior fulgore di ciascuno, quella che si poteva considerare allora la quintessenza della Settima Arte. Lui anche più degli altri due. E questo non tanto perché l'aggettivo "felliniano" aveva finito per entrare nel vocabolario cinematografico a indicare tutte le volte in cui un'immagine o un'idea si vestivano di fasto, di opulenza e, soprattutto, di inventiva. E neanche, forse, restando al vocabolario, perché gli si dovevano termini di nuovo conio (o di nuovo impiego) come la "dolce vita", i "vitelloni", il "bidone" e i "paparazzi". Ma perché gli erano bastati pochi film dalla «Dolce Vita» a «Otto e 1/2» a «Amarcord» a «Intervista», senza dimenticare il «Casanova», per lasciare un'impronta indelebile nel cinema e anche nella nostra società del Novecento. Tante volte mi sono chiesto cosa sarebbe stato il cinema se non ci fossero stati i suoi film e dove sarebbe approdata la nostra cultura occidentale se lui, che non leggeva quasi mai, non l'avesse attraversata con tutta la sua opera. Favole, le chiamavamo, "cosine" si divertiva a definirle lui, ancora una volta sapendo di mentire. Eppure se si pensa allo studio che vi ha dedicato un'intera saggistica con centinaia di volumi in tutte le lingue, si deve ammettere — ed io l'ho fatto spesso perfino con stupore — che quelle "cosine" sono state uno dei monumenti del secolo appena trascorso. Pronte a pretendere, legittimamente, che le si analizzassero, anche le meno riuscite, con tutto il rispetto che si deve alle opere maggiori. Tra lui e me, del resto, si era presto stabilito un rapporto che, ad ogni uscita di un suo film, mi induceva, qui su Il Tempo, a chiedergli chiarimenti in merito, ottenendone sempre risposte illuminanti e tali da consentirmi di arrivare il più possibile vicino alla verità di quelle sue invenzioni creative che, pur servendosi degli strumenti della favola, non erano poi così semplici come ci si aspettava. Non sempre però quelle spiegazioni bastavano a convincermi a coprire delle lodi che tanto amava (fingendo di non tenervi affatto) le sue opere ultime, dalla «Città delle donne» alla «Voce della luna». In cuor suo se ne infastidiva ma per polemizzare faceva ricorso a una sua teoria tutta personale. «Voi critici — diceva — state adottando un metro di giudizio che penalizza l'autore vero e risparmia quello modesto. Ti leggo ogni giorno: hai sempre l'aria di dire "la botte dà il vino che ha". Poi arriva uno come me dal quale tu, bontà tua, ritieni di dover pretendere il massimo, e allora diventi esigente, ti tieni sulle tue o lodi a denti stretti. Senza renderti conto che nessuno, neanche uno grande come tu mi ritieni — e sottolineava il termine per continuare ad appropriarsene — può sfornare ogni volta un capolavoro. Così dovresti guardargli con la stessa bonarietà che ai "piccoli" largisci tanto spesso». Una lezione di cui, facendo questo mestiere, cerco di ricordarmi. Non riuscendoci sempre.