Il leggendario festival di Robert De Niro pronto a essere esportato nella Capitale
«Il Cacciatore» più amato e ricercato dalla stampa internazionale, finalmente si confessa dalla sua residenza newyorkese: il palazzo della Tribeca Production, a Lower Manhattan, dove De Niro vive e lavora. Nonostante la barba bianca e i capelli lunghi, voluti per interpretare il personaggio del suo ultimo fim in costume, nel suo completo grigio, elegante e discreto, Bob non ha perso la dolce inquietudine che da sempre accende il suo sguardo. Per seguire il Tribeca Film Festival, fondato da lui insieme con Jane Rosenthal e Craig Hatkoff, Robert è volato in fretta a New York dalla Spagna, dove ha appena finito di girare il film «The bridge of San Luis Rey». Il festival che si concluderà domenica con la pellicola «The Italian Job» di Mark Wahlberg, con Charlize Theron e Edward Norton, diventerà presto anche una realtà romana. La proposta di esportare a Roma la formula del Tribeca, che vuole essere soprattutto un festival per la gente, capace di animare l'intera città, è della Fanara And Associates: il presidente Giorgio Fanara ha dichiarato di avere ottenuto «la collaborazione del Comune di Roma e dell'Agenzia del Turismo, nella persona dell'amministratore delegato, Marco Bruschini, per promuovere sempre più il gemellaggio esistente tra New York e Roma». Mr. De Niro, come è nata l'idea di creare a Downtown un festival così popolare come il Tribeca? «Con la prima edizione dell'anno scorso, il Tribeca Film Festival da sogno è diventato una realtà. L'idea è iniziata tredici anni fa con Jane Rosenthal, con cui ho già fondato la Tribeca Production. L'intento era quello di celebrare, attraverso la proiezione di film provenienti da tutto il mondo, la vitalità di Lower Manhattan, la rinascita di una comunità, qui a Downtown, che ha vissuto giorni migliori all'ombra delle Twin Towers. Volevamo che la gente non venisse qui solo per vedere il buco, ma anche per cenare, divertirsi e vedere i film. Il festival è stato organizzato in centoventi giorni con una missione ben precisa: restituire forza economica a questa zona di Manhattan, depressa dall'attacco dell'11 settembre. Lo scorso anno siamo riusciti a portare più 150 mila presenze, ora speriamo che i numeri si moltiplichino». Con quale criterio scegliete i film in competizione? «Quest'anno il mondo vive momenti di grande ansia e preoccupazione, ma vogliamo ugualmente celebrare la creatività cinematografica, la magia di film ricchi di risate e di lacrime, di emozioni e di esperienze di ogni tipo. Abbiamo esaminato opere da tutto il mondo, riflettendo sul peggio o sul meglio dell'umanità e ricordando tutti coloro che sono morti a Ground Zero. Proprio attraverso i film, si può dimostrare che la cultura è la speranza migliore per abbracciare le differenze culturali e condividere le somiglianze». I critici americani hanno molto apprezzato la sezione del Tribeca che riguarda il restauro dei film. Nella nuova versione di «C'era una volta l'America» di Sergio Leone si possono ora vedere dieci minuti inediti e indimenticabili: cosa ricorda in particolare di quel film e di Sergio Leone? «Sergio era una persona straordinaria, sia come artista sia come uomo: possedeva una sensibilità, un'umanità e una personalità davvero fantastica. Era un grande. Amo Roma e soprattutto Cinecittà, i suoi studios e la sua bellissima struttura. Non scorderò mai quei giorni in cui giravo a Roma la scena della fumeria d'oppio». Quali sono le sue aspettative sul futuro del Tribeca Film Festival? «La nostra iniziativa è stata molto sostenuta dalle star e dagli Studios americani: nei giorni scorsi, qui sono passati molti personaggi, come Richard Gere o Bono. Il Tribeca è un festival giovane, ma di sicuro è un festival diverso da tutti gli altri: fatto con l'anima, non per l'industria. E' la celebrazione di un quartiere preciso di New Yor