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Dalle prime discese del batiscafo di Otis Barton alle spedizioni dei sommergibili americani, russi e giapponesi

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Sono gli abissi oceanici, ossia i fondali marini sotto i 1.800 metri, che si stendono per ben 341 milioni di kmq, pari al 67 per cento della superficie terrestre. Laggiù, nell'oscurità che i raggi del sole non possono squarciare, dimorano creature dall'aspetto preistorico e spesso orripilante: bocche enormi, denti affilati, occhi sporgenti e sagome piatte, così modellate dalla Natura forse per resistere meglio all'enorme pressione. Insomma roba da «Ventimila leghe sotto i mari». «Si pensi al pesce vipera, il Chauliodus sloani - dice il biologo Francesco Barbieri, coordinatore scientifico della mostra multimediale «Abissi, viaggio nei misteri del profondo» (visibile a Trieste fino all'11 maggio e sarà a Milano il prossimo settembre) - un temibile predatore che vive fra i 500 e i 2.500 metri di profondità, anche nel Mediterraneo. Ha lunghi denti acuminati disposti a griglia per catturare anche prede di considerevoli dimensioni ed è munito di fotofori lungo il corpo e sulla testa». Gli habitat marini, già al di sotto degli 800 metri, sono a dir poco inospitali. A quelle profondità i raggi del sole non penetrano, e le alghe non possono crescere perché senza luce non è possibile la fotosintesi clorofilliana, un fatto che è la causa principale della penuria di cibo a quelle profondità. A rendere proibitivi gli habitat abissali sono anche le basse temperature, comprese tra -1 e 5 gradi centigradi; mentre nei pressi delle sorgenti idrotermali si possono toccare i 350 gradi. Va inoltre considerata la tremenda pressione, che intorno ai 10.000 metri è di una tonnellata per cmq. Ma come si può esplorare questo regno dell'ignoto per carpirne i segreti? Sono trascorsi più di settant'anni da quel 6 giugno 1930 in cui l'ingegnere Otis Barton salì a bordo della batisfera da lui costruita: una sfera di acciaio spessa 38 millimetri, con un diametro interno di 1,37 metri e munita di tre finestre circolari. Legata a una nave di appoggio tramite un cavo, essa consentì a Barton e allo zoologo William Beebe di raggiungere la profondità di 923 metri al largo delle Isole Bermuda, un primato per quei tempi. Ma la batisfera non era manovrabile: poteva solo scendere e risalire, un po' come un ascensore. Il problema della manovrabilità fu risolto molti anni dopo: il 23 gennaio 1960 il batiscafo Trieste, progettato dallo svizzero August Piccard e costruito nei cantieri italiani San Marco, permise al figlio dell'ideatore, l'oceanografo Jacques, e all'americano Don Walsh di raggiungere la profondità record di 10.912 metri nella Fossa delle Marianne. Il Trieste, tuttavia, non aveva a bordo né una cinepresa né apparecchiature per lo studio dei fondali o il prelievo di campioni; una lacuna che sarà ampiamente colmata negli anni successivi. Dopo quella storica impresa i sommergibili abissali si moltiplicarono: nel 1964 fu varato quello americano a tre posti Alvin; ancora oggi operativo, può scendere fino a 4.500 metri e fra le sue imprese più spettacolari figura la scoperta delle sorgenti idrotermali a 2.600 metri nei pressi delle isole Galapagos. Alla fine degli anni Ottanta furono i sovietici a discendere negli abissi con i sommergibili Mir I e Mir II, subito imitati dai francesi con il Nautile, ma né gli uni né gli altri riuscirono a superare i 6.000 metri di profondità. Soltanto nel 1989 il giapponese Shinkai s'inabissò a quota 6.500 metri. Gli equipaggi di quei sommergibili per la prima volta raccolsero sistematicamente campioni di acqua, animali, piante e rocce. Quelli furono anni di grandi scoperte nel campo delle scienze biologiche, geologiche e oceanografiche. Gli scienziati cominciarono a capire i meccanismi del Niño, la corrente del Pacifico che condiziona il clima del mondo intero, e si scoprì che i fondali marini, tutt'altro che piatti, sono solcati da canyons così profondi che potrebbero nascondere la catena montuosa dell'Himalaya. Non basta. I fondali oceanici ospitano anche

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