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di GIAN LUIGI RONDI LA LINGUA italiana, dalla nascita del nostro cinema parlato a oggi, ...

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L'ha analizzata, con l'abituale dottrina, l'Accademia della Crusca con uno studio del filologo Sergio Raffaelli pubblicato di recente nel suo prezioso semestrale «La Crusca per Voi». Il cammino della nostra lingua sugli schermi può esser diviso in tre periodi. Nel primo, quello che prende l'avvio dal nostro primo film parlato, «La canzone dell'amore» di Gennaro Righelli (1930), ci si rivolgeva ancora, per i dialoghi, a quelli che allora si ascoltavano sui palcoscenici. Con alcune varianti felici, quelle, ad esempio, tentate da Alessandro Blasetti sulla scia di un certo teatro dialettale allora molto vivo: romano in «Nerone» (1930) con Ettore Petrolini, napoletano nella «Tavola dei poveri» (1933) con Raffaele Viviani, per approdare a quella molteplicità di dialetti che costituì la forza realistica di «1860» (1932). Seguì però la stasi del 1934 quando non solo si vietarono i dialetti ma, per decreto, si distorse con il «voi» il nostro «lei» tradizionale, costringendo gli scrittori di cinema a far parlare i personaggi in quell'italiano «scritto a tavolino» (come lo definisce Raffaelli) che fu tipico del cosiddetto cinema dei telefoni bianchi. Nel 1945, però, la seconda tappa. Il Neorealismo ripropose subito la parlata urbana e rurale di quegli anni, specialmente con Rossellini e con De Sica, attenti a non tradire con le parole l'autenticità che perseguivano con le immagini. Nel '48, oltre a tutto, la nuova Costituzione aveva sancito la «libertà di lingua e l'uguaglianza tra le lingue», così proprio in quell'anno Luchino Visconti, per «La terra trema», potè servirsi, con effetti di assoluta verità, del dialetto dei pescatori siciliani còlto addirittura dal vibo. Mentre, sempre nell'ambito del Neorealismo, altri autori poterono rifarsi con efficacia a quell'italiano frammisto a colorate espressioni gergali che si parlava nelle nostre campagne. «Non c'è pace fra gli ulivi» (1950) di Giuseppe De Santis, «Due soldi di speranza» (1952), di Renato Castellani. Dopo di allora, la terza tappa, che dura tuttora. Un italiano influenzato anche dal modo con cui la televisione aveva cominciato a uniformarlo, senza però livellarlo grazie ad autori, primo Fellini da «8 1/2» in poi, che vi privilegiarono un autentico «nobile», mentre la commedia all'italiana («Il sorpasso» 1962, di Dino Risi) lo radicava al costume quotidiano e il cinema civile («Le mani sulla città», 1963, di Francesco Rosi) superando i dialetti, vi acquisiva le conquiste nuove delle cronache parlate; nell'ambito di un patrimonio linguistico sempre più ampio ma, ormai, rigorosamente genuino. Anche quando sembrava ancora, almeno foneticamente, inclinare al dialetto («Padre padrone», 1978, dei fratelli Taviani) o quando consentiva a Ermanno Olmi («Il mestiere delle armi», 2001) di ricorrere a un eloquio cinquecentesco splendidamente fuso però alla lingua di oggi. Certo, dagli anni Trenta, un lungo cammino. L'ha intrapreso la nostra società, ma vi ha contribuito, spesso anche determinandolo, il cinema italiano.Moretti ha dato molto in termini di linguaggio cinematografico ma la sua perla resta l'invito in «Aprile»: «Reagisici, rispondi qualcosa. D'Alema, dì qualcosa di sinistra» Grande Totò che ci ha lasciato una enciclopedia di frasi celebri. Per tutte, quella in napoletano da «La banda degli onesti»: «'A vita è 'na buatta e chi 'na piglia schiatta». Fellini riassunto nella frase che Mastroianni dice alla Ekberg ne «La dolce vita»: «Sylvia sei il mare, la sorella, l'amante, l'amica, l'angelo, il diavolo, la terra, la casa»Visto come prodotto trash, il Fantozzi di Villaggio ha colpito molto l'immaginario popolare. Celebre il giudizio su «La corazzata Potemkin»: «Una boiata pazzesca»

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