di ONORATO BUCCI ABRAHAM Yehoshua, in Tuttolibri, il settimanale de La Stampa del 26 aprile, ...
La religione ebraica, dice in ultima analisi Yehoshua, deve essere aperta anche ai membri di altre nazionalità (si può essere ebrei senza essere israeliani) ed il diritto di cittadinanza non deve essere condizionato dal credo religioso (si può essere israeliani senza essere ebrei). Dopo duemila anni, Yehoshua ripropone il dilemma della Assemblea dei Seguaci del Nazareno dopo la Pentecoste quando Giacomo si scontrò con Paolo che voleva (e riuscì nel suo intento) estendere la predicazione di Gesù ai circoncisi. Dovrei essere contento di questa posizione di Yehoshua perché essa viene a legittimare Paolo di Tarso, apostata per gli Ebrei per aver affermato che la circoncisione non è nella carne, ma nei cuori. Ma non lo sono, perché la presa di coscienza del problema paolino da parte di Yehoshua delegittima tutta la storia ebraica del Secondo Tempio e darebbe ragione ai mille rivoli dell'antigiudaismo che proprio a partire da Paolo di Tarso (fariseo, allievo di Gamaliele ma cittadino romano) sono sorti all'interno della diffusione dell'eresia cristiana. E perché pone lo stesso Yehoshua in uno stato di apostasia rispetto alle Scuole rabbiniche. E l'apostasia non è augurabile per nessuno, perché comporta sempre la lacerazione del tessuto unitario. Ho il sospetto che Yehoshua, soprattutto nel giustificare la sua presa di posizione a partire dal Secondo Tempio e poi dal Sionismo, ritiene Israele solo uno Stato. Israele è anche uno Stato, ma prima di essere Stato è ben altro. Quando la tradizione rabbinica parla di Israele, usa la definizione di «Kelal Israel», che sta a significare la globalità di Israele, ed il termine richiama l'unità della memoria ebraica, tutte le generazioni del passato, cioè, insieme a quelle presenti che costruiscono e che costituiscono il suo futuro. È così alto il valore dato al termine Israele, che Maimonide, nel Commento alla Mischnah Sanhedrin 10, 1, intendeva che esso diventava senso compiuto solo quando tutti gli Ebrei si riuniranno al tempo della Resurrezione dei morti. La realizzazione di quella pienezza non è tanto e solo quella spirituale, ma è soprattutto storica, per cui gli Israeliti devono formarsi nella consapevolezza di essere i privilegiati di Dio (perché popolo di Dio, Esodo, 19, 6). Dal rientro degli Ebrei dalla civiltà babilonese e dalla rinascita della vita nazionale nel proprio Paese nell'ultima parte del VI sec. a.C., fino alla conquista islamica della Palestina del 638 dell'era volgare, pur attraverso tragedie immani (una per tutte: la distruzione del Secondo Tempio ad opera dei Romani), Israele costruì la sua Memoria che l'ha poi sorretta non solo fuori, ma anche dentro la Galut (l'ebraico per il termine diaspora), durante la quale, e sulla base della tradizione talmudica e della Mischnah, la Torah della «Schemà Israel» (ricorda Israele!) poté sopravvivere. Ed ora Abraham Yehoshua vuole rinnegare tutto questo? Martin Buber, a proposito del paradosso di Israele, ebbe a dire che «ad Israele, che è nel contempo nazione e religione e nessuna delle due cose - e che è esposto a tutte le tentazioni delle nazioni e delle religioni - non è lecito sentirsi giustificato come scopo a se stesso, e deve perdersi se vuole esistere solo come formazione politica. Può esistere, e questo è il paradosso della realtà storica ebraica, solo se insiste nella sua vocazione all'unicità: rendere la parola di Dio pronunciata nel Patto». Ecco perché Israele, nel pretendere il diritto sacrosanto di farsi riconoscere dai paesi musulmani come realtà giuridica internazionale, ha il dovere di farsi amare, sforzandosi di risolvere le sue contraddizioni che sono uniche nella storia, nella storia di tutti i tempi. Ma non rinnegando se stesso, come sembra suggerire Yehoshua, ma restando se stesso.