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di ENRICO CAVALLOTTI NULLA meglio della musica esprime la melanconia.

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E con te si prende le cose, e le speranze che ti puntellavano provvide. La musica è anzi la melanconia, perché il suono, a differenza del colore, della parola, dell'imagine filmica, vanisce senz'averti detto prima niente di sé. Il suono t'eleva, infido e sontuoso, alla trascendenza, ma poi fugge senza motivazione plausibile e ti lascia solo: come un lutto. I suoni sono la rappresentazione dell'illusione: evitano il concreto, come le notti il sole, e si negano ad ogni forma del reale: donde la loro fatata morbidezza, la loro evanescenza profumata. Lo diceva già Platone, ed in séguito i primi Padri della Chiesa, eppoi anche Tolstoj: la musica può farti del male. Può scavarti nell'anima e lasciarla vuota di tutto: ferita da una crudeltà mascherata da sensualità. Non di meno, la melanconia sarebbe la piú acerrima nemica della volgare tristezza, se non avesse ancor piú in odio il dolore. E questa melanconia ha ispirato da ultimo Irma Ravinale nel comporre nell'anno 1999 «Quel che resta del giorno», per soli archi, eseguito in prima esecuzione romana al Parco della Musica, sotto la partecipe direzione del maestro Gary Bertini. Che ne ha tratti la veste perlacea ed i succhi virginali. Una pagina lenta e casta, la cui emozione non tarda a diffondersi nell'ascolto, pianamente, a volte con intenso e riguardoso moto. Non frequentemente ci garba un'opera del nostro tristo tempo, che la melanconia non sa piú che cosa sia. E la malinconia è stata riproposta dall'ottimo Bertini nella «Quarta» di Brahms: piú alta: la melanconia per il disfarsi del mondo nel tardo Ottocento mentre s'assiste al progressivo germinare del caos novecentesco che anche Wagner deplora nella «Götterdämmerung»: con piú apocalissi. Se le Sinfonie di Beethoven sono quelle della Certezza, le Sinfonie di Brahms sono quelle del Dubbio: quel Dubbio ch'è figlio dell'esistere e padre della melanconia. Con la quale siamo usciti a braccetto dall'Auditorium, intanto che le torme dei tifosi romanisti ci scandivano con incendiato e vorticoso turpiloquio che la vita se ne frega dell'esistenza. Già, «Forza Roma».

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