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«Sulla Croisette con il film che parla di me»

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Emozione e orgoglio: «Io, specchio dell'Italia. Ho narrato come vincere il senso di inferiorità»

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Ho gareggiato nel 1991 con "Bixx", nel 1993 con "Magnificat", che però erano storie altrui. Ma quest'anno provo un coinvolgimento, un'emozione maggiore. Perché è come se avessero scelto non una mia pellicola, ma me stesso. In persona». Pupi Avati, con «Il cuore altrove», è l'unico regista italiano in concorso al Festival di Cannes. Gli altri nostri cineasti, Marco Tullio Giordana e Nanni Moretti, entrano il primo nella sezione «Un certain regard» con il film tv prodotto da Raifiction «La meglio gioventù», l'altro - che a Cannes vinse con «La stanza del figlio» - sarà presente fuori concorso con «The Last Customer», un documentario firato nel 2002 a New York. Allora Avati, un anno d'oro. Il successo di critica e di pubblico per il suo film, poi il David di Donatello per la migliore regia, ora la gara sulla Croisette. «Non sono fatti poi tanto eccezionali. Anche l'altr'anno a Cannes c'era un solo nostro film in concorso, quello di Bellocchio. Quanto al David, avevamo sette nomination e di statuetta ne abbiamo portata a casa una sola. Ma non è questo il punto». E quale è? «È una consolazione che ora mi arriva, una serie di segnali positivi di cui avevo bisogno per superare, come posso chiamarla, una certa mia perplessità sul continuare a fare cinema. Dico ancora di più: "Il cuore altrove" è il mio film più autobiografico. C'è dentro il mio complesso di inferiorità, il protagonista sono io, Neri Marcorè è la mia immagine psicologica. E io, in quei fotogrammi, rappresento l'Italia». La rappresenta anche come presidente di Cinecittà Holding. Insomma, lei ha un ruolo nell'indirizzare il nostro cinema. «Ne sono felice perché un'idea di come vivificare la cinematografia italiana ce l'ho. Credo di conoscere i motivi del disamore che il pubblico provava verso il prodotto interno. Avevamo, negli anni Settanta e Ottanta, e anche le mie pellicole erano così, opere che parlavano tanto alla mente, poco al cuore. Ora è cambiato, come dimostrano i film di questa stagione. Che hanno avuto successo. E non solo quelli cosiddetti di Natale, tutti comicità cabarettistica. Le grandi platee si conquistano o con la paura o con i sentimenti. I nostri autori hanno scelto la seconda via, e stanno vincendo. Credevo che anche i francesi se ne fossero resi conto e segnalassero con una presenza più nutrita in concorso questo mutamento. Ma avverrà l'anno prossimo, perchè si tratta di un processo ormai ineluttabile». Stupito che sia rimasto fuori Muccino, oltretutto penalizzato anche ai David? «Pensavo proprio che sarebbe stato scelto per il concorso. Però la cosa bella di Cannes, e anche la più apprezzabile, è che tutto avviene segretamente, le illazioni che trapelavano si sono rivelate molto relative. Qualcuno aveva detto che si sarebbe trattato di un festival in tono minore: con Von Trier, Van Sant, Babenco e Eastwood c'è da farsi venire i brividi. Comunque io non mi spavento: non si può andare al Festival pensando di essere sconfitti. Ma, dopo più di trent'anni dietro la macchina da presa, preferisco godermi questo momento, non chiedendomi neppure come mai proprio questo film ha così vasti apprezzamenti. Poi vedremo che cosa succedera».

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