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di EMMA SANCIS PSICHIATRA, filosofo, pittore, studioso di estetica (materia che ha insegnato ...

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Fondatore negli anni Quaranta del Movimento per l'Arte Concreta e profondo interprete delle manifestazioni estreme delle avanguardie artistiche del Novecento, è stato il maestro di diversi intellettuali che riflettono sulla cultura di massa, come Umberto Eco. Di lui è di recente uscito il saggio «Simulacri e luoghi comuni» (Tempo lungo Edizioni, 158 pagine, 12.39 euro). A volte il discorso di Gillo Dorfles assume toni un po' apocalittici ma è un piacere ascoltare i ragionamenti di questo signore elegante, che a 93 anni (è nato a Trieste nel 1910) frequenta ancora i campi da sci. I nostri antenati avevano gli amuleti. E noi che cosa abbiamo? «Non è cambiato nulla: l'unica differenza è che un tempo gli amuleti era legati al mondo della magia, mentre oggi sono legati al mondo del consumo. Molti degli oggetti che possediamo sono in realtà l'equivalente degli antichi feticci. Ognuno di noi ha il proprio feticcio, un oggetto a cui attribuisce un valore speciale. In Occidente, oggi più che in altre epoche, viviamo nel culto dell'individuo, tendiamo a imitare coloro che ci piacerebbe essere, e compriamo questi feticci cercando in essi una nostra identità, nel tentativo di distinguerci. In realtà questa società meccanizzata ed elettronica ci sta trasformando in esseri fittizi, artificiali». Non pensa di esagerare? «No. Ci siamo abituati a vivere circondati da invenzioni che falsificano la realtà : simulatori, videogiochi, registrazioni di concerti dal vivo nei quali però non si sente un sospiro. Tutto questo è falso! E che dire, poi, della televisione?». La vede come una macchina che crea pseudoavvenimenti? «Proprio così. La televisione vuole innanzitutto vendere e a questo fine altera gli avvenimenti, i sentimenti e la realtà, in modo da renderli appetibili al pubblico e al potere di turno». L'importante è il verosimile, quindi, non il vero. «Già. Tutto è un'illusione di realtà. Ma le cose sono ancora più gravi: influenzati da quanto vediamo, finiamo coll'alterare noi stessi. La falsificazione ci cambia anche psicologicamente. A questa pseudorealtà gli americani danno il nome di "fattoidi", ossia fatti costruiti a misura degli pseudouomini che ormai siamo». Un suo saggio del 1997 si intitolava proprio «Fatti e fattoidi»... «Avevo in mente la Guerra del Golfo che avevamo seguito alla televisione e che era totalmente falsificata: non si erano mai visti sangue né morti». Se i mass media falsificano la realtà, che trasformazioni opereranno su di noi? «Siamo già immersi in una cultura nella quale i grandi avvenimenti reali, come guerre, uragani, catastrofi varie, sono come un film, un divertimento». Mi sembra un po' eccessivo. «Non c'è una realtà dietro i fatti, parliamo di cose che abbiamo sentito raccontare e non di cose che abbiamo visto coi nostri occhi. Ogni bambino italiano oggi ha il suo cellulare e parla con la propria mamma diverse volte al giorno, ma poi, quando torna a casa, non trova nessuno ad aspettarlo, nessuno che lo abbracci. I contatti si mantengono per telefonino, sono fittizi, e questo è molto pericoloso». Come si potrebbe cambiare questo stato di cose? «Solo acquisendo la consapevolezza che è necessario cercare un contatto più diretto con la natura e col prossimo. Dobbiamo tornare alle percezioni autentiche, non lasciarci corrompere da quelle artificiali». Eppure preferiamo le falsificazioni. «Sì, perché sono meno destabilizzanti. La conseguenza di ciò è che quando ci troviamo davanti a una realtà, le nostre reazioni non sono autentiche. Reagiamo come pensiamo che reagirebbero i personaggi che vediamo alla televisione, e dunque in maniera irreale». Dove ci condurrà tutto questo? «Senza dubbio i rapporti fra uomini e donne saranno, o forse già lo sono, meno sinceri, e così quelli fra genitori e figli». Sono i falsi

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