di DARIO SALVATORI IL DESTINO, beffardo, le ha dato in sorte di vivere fino a 70 e dunque ...

Gli appassionati romani ricordano ancora la sua esibizione dello scorso anno all'Auditorio,quando fornì un set secco, nervoso, puntellato da battute per e contro il pubblico - con tanto di roboante «no!» rivolto a chi, in sala, chiedeva insistentemente dei brani - ma sorretto sempre da uno swing inesauribile. Anche in quell'occasione, del breve colloquio che concesse a pochi giornalisti, la Simone ci riferì del suo odio per tutto l'establishment americano, del rancore maturato in anni e anni di esilio, iniziato nel 1973, quando lasciò gli Stati Uniti per vivere nei Caraibi, poi in Africa, infine in Europa. Nina Simone è morta in Francia, dove aveva deciso di vivere per protestare contro la disuguaglianza razziale, ma soprattutto perché non approvava il modo con cui lo show business si occupava degli artisti negri. Nata a Tryon, nella Carolina del Nord, aveva studiato piano e canto, diplomandosi a pieni voti alla prestigiosa Juilliard School. A quattro anni era già considerata una bambina prodigio e la sua città si mobilitò per aiutarla a studiare, ma ben presto si rese conto che la sua carriera sarebbe stata tutta in salita. Possedeva tutti i mezzi artistici e tecnici per fare la concertista, ma il talento non bastava, la sua condizione di afro-americana la danneggiò fortemente. Arrivata a New York, furono i jazzisti della Quarantasettesima strada ad adottarla, in fondo quella voce, quello stile pianistico, nel frattempo diventato più incisivo, ben si adattavano al blues, al soul. Nacque Nina Simone, qualcosa di più di uno pseudonimo, forse adottato con la segreta speranza di riprendere il nome vero per una carriera classica a cui ancora non aveva rinunciato. Ma il suo destino era segnato. Il blues, tutta la storia della black music, avrebbe costituito il suo repertorio, compresi alcuni meravigliosi sconfinamenti del pop ma anche nel gospel e nello spiritual. Il suo primo album, «Nina Simone and her friends», è del 1957, periodo in cui si consacra come autentica regina del settore. Negli anni Sessanta, mentre aumentava la sua popolarità - la sua cover di «To love somebody» dei Bee Gees divenne un hit internazionale - la Simone non dimenticava il suo impegno sociale, la voglia di affiancare i principali leader del Black Pride, da Martin Luther King a Malcolm X, con i quali collaborò strettamente. Intanto la sua personalità aveva iniziato ad influenzare gli artisti più giovani, bianchi e neri, fra cui Aretha Franklin, Dee Dee Bridgewater e lo stesso Bob Dylan, paralizzato dalla indimenticabile versione della Simone del classico «The house of the rising sun». Una carriera proseguita a tutto campo, spaziando da Bach a Chopin, dai classici del cool jazz alle cover dei Beatles, senza mai dimenticare l'inquietudine afro-americana, ricordata in temi quali «To be young, gifted and black», il classico «Strange fruit» o il suo «Old Jim Crow». Agli inizi degli anni Settanta i rapporti con gli impresari e con tutto il settore discografico, nonostante i buoni esiti commerciali, diventano impossibili. Al suo proverbiale caratteraccio, la Simone aggiunge un alcolismo deleterio quanto pericoloso, nonchè un'ostentata omosessualità che certo non l'aiuta. Ma come artista continua ad essere rispettata. Concerti e dischi, ormai rari, sono sempre degli eventi. Quando arriva in Francia «rilegge» dei classici di Jacques Brel e di Charles Aznavour e il successo arriva anche stavolta. Purtroppo non cessa l'ostracismo, qualche volta dettato da motivazioni oscure. Radio e Tv la oscurano, ma la Simone si prende la sua rivincita. Il suo «My baby just cares for me», un gioiello degli anni Sessanta, viene scelto come sottofondo per uno spot televiso e per anni sarà uno dei «commercial» più azzeccati. Oggi la stessa operazione si sta ripetendo, per un'altra azienda, con «I want a little sugar in my bowl», un brano inserito nell'album «Nina Simone sings the blues» del 1