di RENZO BONVICINI LA SERATA di sabato (replicata oggi e domani) al Nuovo Auditorio si è ...
Joshua Bell, americano attesissimo con il suo Stradivari Gibson o Huberman ha confermato le sue doti di violinista agguerrito e raffinato al tempo stesso nel famoso Concerto di Mendelssohn in mi minore e la bacchetta dell'inglese Jan Latham-Koenig ha concentrato tutta l'attenzione del pubblico sulla sua meticolosa applicazione a Ferrari, Donatoni e Janacek. Bell ha ricevuto senz'altro i maggiori applausi e consensi, anche con la sua stessa «cadenza» al primo tempo del concerto mendelsshohniano più oculata e meno virtuosistica rispetto a quella usuale di Ferdinand David, e offrendo inoltre una limpida edizione dell'intero testo, timbrata con dolcezza e non preponderante rispetto all'orchestra. Ma parliamo del direttore e delle sue scelte di programma, di gusto discutibile, per quanto riscattate dalla convinta soddisfazione del Latham-Koeing e da un suo straordinario amore per certi dettagli delle partiture. Senti, ad esempio, i forti accenti, le potenti sforbiciate orchestrali di «Lumina» del genovese Giorgio Ferrari in contrasto con le timide uscite solistiche dei fiati e del violino in funzione concertante, e inoltre l'abile vibrare ritmico dell'intero fraseggio. Con la medesima determinazione Koenig ha condotto le fila più frammentate e terse della struttura di Algo IV per 13 strumenti di Franco Donatoni, lavoro di resa piuttosto monotona. Ha «sugellato» la Sinfonietta di Leos Janacek, del 1926, ma riferita ai fatti politici del 1918 quando la sconfitta della monarchia portò alla nascita dello stato nazionale ceco. Il clangore degli ottoni, l'acclamazione innologica, l'intento folcloristico-programmatico, il senso di festa paesana la vincono sulla qualità propria della musica, sortendo in plateale gradimento, che al pubblico, infatti, non è dispiaciuto.