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di ENRICO CAVALLOTTI DIRETTORE ponderato ed igneo.

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1 in re maggiore» di Gustav Mahler. Parevano, nel reboante ed invasato movimento finale - «Stürmisch bewegt» «Tempestosamente agitato») - spengersi i lumi della ragione e vanire il buon senso degli esseri umani sotto le micidiali esplosioni d'un carnevale acherontico aizzato dalla ferocia lucente degli ottoni e dall'ira livida degli archi, a tacere dei dimenii forsennati delle percussioni. Eppure Mehta non aveva saputo imprimere all'incipit della sconfinata opera mahleriana (o sia quel «pedale» in la, immoto come un oceano finto) il sentore criptico e gelatinoso del repentaglio: ché s'avanzava il maestro delle Indie come nulla fosse, quasi a beatamente vagolare in un pacioso reame della norma: del canone. S'è sdormito d'un botto, poi, al contatto colle dolcezze infide dello «Scherzo» e tra i grotteschi bistri della «Marcia funebre», e l'innato estro non disgiunto dalla consumata pratica esegetica gli ha messe, al direttore, innumeri frecce nell'arco d'una condotta interpretativa fascinosa e vibratile affatto. Il concerto contemplava ancora un opus magnum di quella ch'è stata la nostra compianta civiltà musicale: la celebre «Sinfonia n. 41 in do maggiore» (KV 551) di Mozart, resa da Mehta nell'eletta compostezza d'un disegno equilibrato e verecondo: nella coscienza di percorrere un linguaggio formale storicamente pervenuto ad un'ideale perfezione. Del resto, dopo Mozart, il sistema dei suoni si screpolerà, si macchierà, s'incrinerà a poco a poco: sino a rischiare intorcinamento, dissoluzione e capitolazione lungo il secolo ventesimo, tristo assai. Collocata in mezzo ai due citati monumenti, una stele (o cippo, se vuoi): la «Kammersymphonie» per 15 strumenti del giovane Schönberg, in bilico tra misericordi echi tonali nel turgore del solco straussiano ed aneliti palingenetici, manifestando la bacchetta del condottiero orientale una patente propensione a coccolare i primi. Il bis? Mai come l'altra sera sarebbe tornato grato al popolo festantissimo.

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