L'elica della vita una rivoluzione in cinquant'anni
Intervista con il genetista Cavalli Sforza a mezzo secolo dalla scoperta del Dna
Entrando nell'Eagle Pub di Cambridge si dice che Crick abbia esclamato: «Abbiamo trovato il segreto della vita!». Rievochiamo la scoperta con il professor Luca Cavalli Sforza, il nostro genetista principe, durante la cerimonia di celebrazione dell'avvenimento, svoltasi a Roma al Parco della Musica con la partecipazione dei maggiori esperti del settore. Professor Cavalli Sforza quale importanza ha l'identificazione della "doppia elica" per la biologia dell'evoluzione umana? «Dire fondamentale è poco. Dobbiamo alla definizione del Dna un lungo cammino che ci ha permesso di escludere ad esempio che non esistano differenze importanti dal punto di vista genetico tra le diverse nazionalità e che l'Italia è uno dei paesi dove i popoli si sono mescolati, in uno straordinario crogiolo, dando vita ad un autentico magma incandescente d'individui straordinari. Qualche minima differenza è stata registrata solo nelle popolazioni della dorsale appenninica e della cerchia alpina». Quali sono queste diversità? «In queste zone come in alcuni paesi dell'interno della Sardegna esiste una maggiore consanguineità. Ci sono paesi dove tutti sono cugini tra loro e derivano tutti da nuclei originari di dieci o dodici persone. Dobbiamo ricordare, tuttavia, che ogni individuo è diverso dagli altri e la possibilità di trovare due individui con lo stesso corredo genetico è solo teorica». Tra i paesi europei come si colloca dunque l'Italia? «In una posizione dove emerge, in piena luce , questa mescolanza che non è solo genetica ma anche culturale. La nostra è una nazione "aperta" dove gli scambi hanno sempre raggiunto il massimo livello». Watson e Crick chi erano? «Difficile dare una definizione di due personaggi così diversi. James Watson era un giovane biologo americano che era arrivato in Inghilterra ed aveva deciso di dedicarsi allo studio della genetica spinto in questo anche da Salvador Luria. Francis Crick era anche lui un biologo esperto di cristalli e di raggi X. Unendo le loro professionalità hanno dato vita ad una delle più importanti definizioni della scienza, quasi un'icona del ventesimo secolo». Che cos'altro hanno lasciato come patrimonio culturale? «La favola prima diffusa poi contraddetta e di nuovo rivalutata, che ci sia una sola donna africana progenitrice dell'uomo. È un'ipotesi azzardata perché è difficile pensare ad una sola donna, come madre di un'intera specie. Ma, ormai, appare certo che l'origine dell'umanità abbia avuto luogo in Africa. L'ipotesi di una singola specie non è mai apparsa molto convincente. La storia dell'uomo è contrassegnata da diversità anziché da una progressione lineare. Le varie specie d'ominidi identificate in Africa, si svilupparono, coesistettero successivamente entrarono in contraddizione ed infine decaddero. L'homo sapiens, però, rimase, alla fine, come specie unica tra tutti gli ominidi. Adesso possiamo dire con certezza che indiscutibilmente la sua origine è africana. Il patrimonio genetico che abbiamo individuato studiando il Dna del mitocondrio, l'organello che permette la respirazione della cellula, ci permette di dire che almeno la metà è di provenienza africana. Il rimanente è diviso tra influenze africane e d'altre popolazioni. Il nucleo forte però è sempre del continente nero la gran madre della nostra specie». C'è solo la prova del Dna mitocondriale che è sempre di pertinenza femminile? «A Stanford all'università americana dove continuo a lavorare, alternando il mio tempo con la permanenza in Italia, abbiamo compiuto delle complesse analisi studiando il cromosoma Y che è quello maschile. Anche questo sistema di studio ha portato alla stessa conclusione. La nostra origine è sicuramente africana: non si tratta d'ipotesi ma di dati scientifici "mediani". La scienza quando fa statistica ed indica la media non può sbagliare». Quali sono le certezze nel se