Le teorie di Hélène Metzger sulla metodologia della ricerca
«Lo storico deve farsi contemporaneo degli autori che indaga»
Il sapere scientifico ha risolto problemi pratici di enorme rilievo: basti pensare alla scoperta del motore a vapore e alla costruzione delle macchine tessili; alla chimica agraria e a quella alimentare; all'elettrologia; ai problemi risolti della microbiologia e all'immunologia. La scienza ha rovesciato e rovescia di continuo sul mondo delle cose e degli uomini valanghe di conseguenze rilevanti. La scienza è fattore di storia. Ma essa è anche fattore di cultura. Noi siamo quel che siamo perché viviamo in una tradizione; siamo impastati della nostra tradizione. Noi - come ha detto Jacques Monod - siamo fossili: siamo «memoria biologico-culturale». La «tradizione culturale» degli antropologi e dei sociologi, la «pre-comprensione» di Gadamer, le forme simboliche di Cassirer, il «mondo 3» di Popper, Eccles, Medwar sono, dal più al meno, la stessa cosa: sono quell'iperuranio creato dall'uomo e con il quale i gruppi umani leggono il mondo, si orientano nel mondo. Le idee scientifiche sono, dunque, fattore di storia. Le idee scientifiche sono fattore di cultura. Di conseguenza, se vogliamo capire la storia economico-sociale e la storia della cultura, la storia della scienza è imprescindibile. Ma qui sorge, inevitabile, un ulteriore problema: come fare storia della scienza? E soprattutto: la storiografia della scienza è anch'essa scienza oppure no? Ebbene, su tale problematica - resa attuale negli ultimi decenni soprattutto dalle dispute epistemologiche che hanno avuto per protagonisti pensatori come Popper, Kuhn, Lakatos e Feyerabend - è uscito di recente un prezioso volume di Hélène Metzger dal titolo «Il metodo filosofico della storia della scienza» (Barbieri Editore, 2002, 268 pagine, 17 euro). «Lo storico della scienza deve o non deve tentare di farsi contemporaneo degli studiosi di cui espone le teorie?». Questo, afferma la Metzger, «è uno dei problemi più importanti, e forse addirittura il problema primario della storia della scienza». E, contro quegli storici le cui relazioni somigliano «ad un albo d'oro dei premiati», una specie di tribunale dove si emettono sentenze sulle dottrine dei secoli passati alla luce delle teorie attuali, la Metzger sostiene che lo storico della scienza «nel corso del proprio lavoro non dovrà preoccuparsi di sapere se le conclusioni del suo lavoro possono giustificare o meno una determinata concezione dell'intelligenza o della ragione umana; non dovrà rinchiudersi in un determinato schema a priori dettato da una concezione precostituita della scienza o della sua storia; l'accordo tra i fatti che lo storico studia e la dottrina filosofica deve venire da sé, senza imbrogli, senza sollecitazione né dei fatti né della dottrina, senza ritocchi o, a farla breve, senza alcun tipo di arbitrarietà». In altri termini, se vuole pensare da storico, lo storico della scienza deve tentare di farsi contemporaneo degli studiosi di cui espone le teorie, dovrà cercare di ripensare i libri dei maestri di un tempo «proprio come avrebbero fatto i discepoli e gli allievi di tali maestri (...). Se sarà riuscito a cogliere l'orientamento spirituale dello studioso di cui analizza l'opera, tale opera (...) diventerà per lui trasparente e luminosa». Certo, lo storico affronta i testi dei ricercatori del passato «con un suo certo modo di vedere», ma questo non significa che la storia «non sia altro che uno specchio che rimanda allo storico il proprio ritratto spirituale». Ciò sarebbe vero «soltanto se, sin dal primissimo approccio ai testi, lo storico interrompesse i suoi sforzi per proclamare immediatamente il suo giudizio definitivo, immutabile, irrevocabile». Senonché, prosegue la Metzger, «con lo storico che consideri la storia in quanto realtà effettuale, ciò non potrebbe proprio accadere. Lo storico non pregiudica i risultati del proprio lavoro se ha chiara coscienza delle difficoltà di tale lavoro; nel corso delle sue ricerche egli afferma costantem