2 giugno '46, inediti dagli archivi Usa
Altrettanto irreprensibile per discrezione e riservatezza fu la successiva gestione di quasi quarant'anni di esilio. Nonostante lo spirito di servizio cui ispirò la sua condotta nei due anni durante i quali fu chiamato a traghettare la transizione prima verso la liberazione del Paese e poi verso le elezioni per la Costituente e il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, la sua partenza dall'Italia, il 13 giugno, fu segnata da una rottura drammatica con il governo destinata a scavare un solco mai interamente colmato. Si tratta, ovviamente, del nodo del referendum, dei risultati da molti contestati, e del passaggio dei poteri, che forzò nell'ultima fase quanto previsto, in modo abbastanza impreciso, dalla legge elettorale, come emerge anche da un rapporto confidenziale degli Alleati (di cui pubblichiamo un ampio brano), recentemente desecretato dagli archivi di Washington. La sconfitta della monarchia al referendum era data per certa dai sei partiti del Cln (tutti per la Repubblica, con l'eccezione di parte dei liberali e dei demolaburisti), dopo che il Luogotenente aveva firmato i decreti elettorali per il 2 giugno, nonostante lo stato di confusione che ancora regnava nel Paese. Le cose cominciarono a complicarsi ai primi di maggio, con le dimissioni di Vittorio Emanuele III e la successione di Umberto II, che fu accompagnata da viaggi nel Paese e da grandi manifestazioni popolari. I sondaggi davano ancora una maggioranza repubblicana al 70%, ma molti leaders di partito cominciarono, giustamente, a dubitare della loro attendibilità. In questo clima d'incertezza, dopo il voto, si arrivò alla notte del 4 giugno, famosa per l'altalena delle voci sui risultati, al punto che nel pomeriggio De Gasperi aveva scritto al ministro della Real Casa, Lucifero, di ritenere ormai sicura una vittoria della monarchia. La mattina del 5 i dati quasi definitivi si presentarono però in termini mutati, con oltre 12 milioni di voti alla repubblica e 10 milioni e mezzo alla monarchia, come annunciò il ministro dell'Interno, Romita, in una tesissima conferenza stampa. Sembrava fatta, ma non era così. La legge parlava infatti di «maggioranza dei votanti» e sull'interpretazione di questa parola puntò il ricorso dei monarchici, secondo cui la maggioranza assoluta doveva essere calcolata comprendendo anche le schede bianche e nulle. Inoltre la proclamazione dei risultati definitivi spettava alla Corte di Cassazione, che avrebbe dovuto esaminare tutti i registri e i tanti ricorsi presentati. Cominciarono così giorni terribili, durante i quali s'incrociarono proposte di mediazione e aperte minacce, sottigliezze giuridiche e rumore di sciabole, mentre le manifestazioni di piazza contrapposte si susseguivano e i ministri sedevano in permanenza. Si dovettero calcolare le schede bianche e nulle, ma si scoprì (ammissione di Togliatti ) che molte erano state distrutte. Sull'orlo del collasso istituzionale, il 12 giugno il governo proclamò la repubblica e attribuì a De Gasperi (che accettò anche per il timore di iniziative armate delle sinistre) le funzioni di capo provvisorio dello Stato, anticipando di sei giorni la decisione della Cassazione di respingere i ricorsi, non calcolando oltre un milione e mezzo di schede bianche e nulle (che avrebbero ridotto al minimo il quorum) e convalidare la vittoria repubblicana. Per Umberto II la scelta era ormai obbligata: partire o destituire il governo e precipitare il Paese nella guerra civile. Era un'alternativa solo teorica, perché tutta la sua condotta andava nel senso della pacificazione del Paese. Partì quindi rifiutando un congedo ufficiale che lo strappo del 12 aveva reso impraticabile. Ma lanciò una vibrata protesta alla Nazione che rim