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Pollini corona il suo «Progetto» con la poesia di Chopin

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ALLA PRESENZA DI CIAMPI

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Non di meno, lo spirito e la natura interpretativa di Maurizio Pollini - che ha iersera conchiuso al Parco della Musica con un trionfale concerto dedicato a musiche di Fryderyk Chopin il «Progetto Pollini» - tendono spasmodicamente all'«ideale». E, ben piú d'altri concepimenti interpretativi, sacrificano a quel fine la realtà: quella realtà sfaccettata ad infinitum fatta d'insolubili contrasti e della loro obbligata accettazione, dei poeticissimi compromessi all'interno della segreta fucina ove in perpetuo s'attraggono e si respingono, s'urtano e si fondono l'essere, il dover essere, il voler essere. Si potrebbe da taluno azzardare, ascoltato il concerto, che anche «l'innamorata aurora» vanti minor verecondia dello Chopin suonato dal maestro milanese. Uno Chopin cosí appartato e casto da rifuggire, quasi, dal canto stesso che l'invera e muove. Certo, non da quel canto severo che getta talvolta bagliori sui contenuti di virilità e di vivido patriottismo (e come tuttavia paiono ambigue tali parole per l'arte di Chopin, non ostanti gl'intenti e le esegesi intraprese dagli studiosi del polacco onde rovesciarne la tradizionale imagine femminea in effigia di civile possanza). Pollini mira invece ad eludere quella melodia chopiniana che s'origina e s'effonde nell'indistinta mistione dei turbinii psicologici: là dove l'autobiobrafia, la confessione lirica, gli avvolgimenti sensuosi permeati d'immisericordiosa nostalgia, le memorie sí private ed intime da erompere nell'universale, i lunghi e lenti languori che montano, tanto piú avvincono e premono quanto piú sembrano aspirare ad una scrittura e ad una forma classica che tutto ciò assolvono, o risanano. Resta Pollini come attonito a petto dell'enimma di tanto fascino. Forse, egli teme irreale, impossibile il prodigio di quest'arte che barbaglia su interminati tremori e pur approda alla composta perfezione della «reliquia»: gl'incendî di bellezza fàttisi luce di contemplazione e superna armonia. Il pianista s'avanza con cautela: non ostacola il respiro, ma ne impedisce l'ansimare. L'accalcarsi d'arcane e dogliose dolcezze si dirada e distende in un conforto cheto e rasciutto. La voluttà dei sentori violenti trascolora in una sòrta di boreale affezione religiosa. L'apprensione dell'incantesimo emotivo si placa in un'ignuda e «descritta» misura. Pollini par che nel suonare sveli: «Io non posso sapere tutto di lui», e miri dunque, con ogni creanza e con atto d'intelletto, a recare il compositore a sé: a rendere attuale, per quanto possibile diretto e razionale, colui che si rimarrà sempre inattuale e, per ciò, piú ambito: racchiuso nello scrigno spirituale piú recondito e prezioso della «Romantik». Siffatta relazione fra l'esecutore ed il compositore assume motivi d'inaudita suggestione. Il rigore etico-estetico del pianista si fa incontro alle tossiche blandizie, ai pallori appostati nei meandri delle frasi di quella musica, agl'inebriati spaesamenti chopiniani, e li rende nell'evocarli necessarî e desiderati: come quelle concessioni a lungo sospirate ed in fine date ma d'un súbito negate. Se Alfred Cortot, il massimo «segretario» di Chopin, giungeva ad identificarsi con lui; se Arthur Rubinstein lo «ascoltava» con partecipazione incoercibile; se Arturo Benedetti Michelangeli sericamente l'imparadisava e carezzava; Maurizio Pollini iersera l'ha placato e legato alla grave e pur tenera innocenza della sua sensibilità d'interprete. Cosí nei «Notturni», nella «Sonata in si bemolle maggiore op. 35», nelle numerose altre pagine dell'autore polacco. Nella sala s'è a poco a poco configurato lo Chopin ritratto da George Sand: «Un ange beau de visage comme une grande femme triste, pur et svelte de forme comme un jeune dieu de l'Olympe». Tu alle favole non ci credi piú. E come potresti ora? Ma niente che una sensibilità atta ai sortilegî le celebri, t'avvedi d'un tuo atavico appetito. Perché mai? Ramméntati d'Orazio: «Mutato nomine, de te fabula narratur».

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