di LUIGI DELL'AGLIO I MUSEI di archeologia industriale presentano il carbone come il più significativo ...
Ciò che dovrebbe appartenere definitivamente al passato è il costo umano, sociale e ambientale che il carbone imponeva; l'Italia ha pagato un tributo pesante l'8 agosto 1956 con i suoi 138 minatori morti, in un pozzo profondo 900 metri nella miniera di Marcinelle in Belgio. Dovrebbe restare confinato nel passato l'orrore degli incidenti. Il carbone non va più associato all'idea di nuvole nere che riempiono vorticosamente l'aria intossicandola, né abbinato all'immagine di quelle donne e di quei bambini dalla faccia sporca e smunta che la commissione d'inchiesta costituita dall'Inghilterra vittoriana incontrò nelle miniere del Lancashire. Il carbone fa sorgere le prime città manifatturiere inglesi che erano «spaventose, malsane e brutte» come dicono le cronache del tempo. Tutto questo è senz'altro da collocare nell'archeologia industriale. Già nel '900 il mondo del carbone era diventato meno inquinante. La proposta dell'Enel per la riconversione a carbone della centrale di Civitavecchia (oggi all'esame del Consiglio comunale della città-porto) dimostra che - se diminuiscono le emissioni nell'atmosfera - il più antico e abbondante combustibile fossile ha ancora capitoli da riempire nella storia dell'uomo e può non rappresentare più una minaccia per la sua salute. Il progresso tecnologico permette ora al carbone di imporsi anche nell'era post-industriale, quella dell'economia immateriale, e addirittura di proiettarsi nel futuro come energia tra le più pulite, secondo il progetto delineato dal Premio Nobel Carlo Rubbia (vedi articolo pubblicato accanto). Senza il carbone, la storia dello sviluppo industriale sarebbe partita in ritardo o non sarebbe partita affatto. Per decine di migliaia di anni, la ricchezza nera (così era chiamato all'inizio, prima che arrivasse l'oro nero, il petrolio), il carbone è usato dall'uomo quasi distrattamente. Per riscaldarsi, per cuocere il cibo, c'è l'alternativa più naturale e più facile: la legna da ardere. Ma poi, nelle zone abitate, le foreste cominciano a diradarsi. In Inghilterra sono addirittura i Romani a usare il carbone, nel secondo e terzo secolo dopo Cristo. Nel XVII° secolo, il consumo pro-capite degli inglesi è già di 200 chili. Questa trascurata fonte di energia decolla dopo il 1769, quando James Watt realizza la macchina a vapore. L'estrazione dalle miniere diventa meno ardua (i pozzi e le gallerie sono prosciugati dall'acqua in maniera più efficiente). La macchina di Watt opera subito come forza motrice degli opifici tessili prima alimentati dall'energia idraulica dei mulini. Ma è il carbone il combustibile per far andare la macchina a vapore. E così carbone e vapore, insieme, diventano la spinta che mette in moto la rivoluzione industriale, uno sviluppo che non si era mai visto lungo il percorso compiuto dall'umanità dall'epoca della scoperta del fuoco. Il simbolo emozionante della civiltà industriale corre sui binari, lancia pennacchi di fumo che tracciano una scia nel cielo e manda un sibilo imperioso: vuole farsi strada rapidamente in mezzo al mondo agreste e statico che lo circonda, vuole travolgere gli equilibri ancestrali. È la locomotiva, a vapore e a carbone, il «mostro» che entusiasma Giosuè Carducci. Il treno attraversa gli Usa, taglia i territori degli indiani Hopi che con il carbone, fin dal Trecento, cuocevano tranquillamente il loro vasellame di argilla. La vaporiera precorre l'avvento del sogno americano. Il mondo cambia rapidamente. Con il carbone si alimentano i grandi forni da cui esce l'acciaio. Si sviluppano città che sono colossi industriali, come Pittsburg, in Pennsylania, che può sfruttare i ricchissimi bacini carboniferi dei dintorni. Nella seconda metà dell'Ottocento e per buona parte del Novecento, il carbone provvede a fornire l'energia che dà il senso