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Il giornalista dalla penna incendiaria

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Un'avventura, la sua, cominciata quasi per caso. Era il 1977. Da due anni il maggiore quotidiano italiano era orfano della sua firma più avvincente: quel Pier Paolo Pasolini, morto nel novembre del 1975. Era un vuoto pesante quello lasciato sulla prima pagina. Un vuoto di idee, di sguardi imprevisti sulla realtà. Ma Piero Ottone, allora direttore, si trovò un jolly tra le mani. Giovanni Testori infatti da qualche mese aveva iniziato la collaborazione al quotidiano come elzevirista di terza pagina, in particolare per le sue grandi competenze in campo artistico. Ma il 3 settembre 1977 sulla scrivania di Ottone arrivò un articolo inaspettato. Era Testori che rispondeva a un intervento di Giorgio Napolitano, esponente di punta dell'allora Partito comunista, pubblicato quel giorno stesso. L'articolo era già munito anche di titolo: «La cultura marxista non ha il suo latino». Firma: Giovanni Testori. Tesi: la cultura dominante in quegli anni aveva un peccato originale nel suo dna perché non faceva i conti con la morte e con tutte le domande che il senso del limite solleva nella coscienza dell'uomo. Perciò era una cultura destinata a fallire. Ottone, uomo di cultura radicale e di sinistra, non esitò un istante a far mettere in pagina quel pezzo pur consapevole della tempesta che avrebbe suscitato. Così accadde: l'articolo di Testori scatenò il putiferio. Nessuno, tanto meno un uomo dal sentimento di sinistra come lui, aveva osato affondare un attacco così perentorio all'intellighentsia dominante. Furono le reazioni violente e nevrotiche di chi deve replicare a un attacco imprevisto e spiazzante. Per Ottone era come aver trovato, invece, una pepita d'oro. Testori rappresentava infatti quella firma dirompente e trasversale in grado di incendiare di polemiche ogni materia che toccava. Per lo scrittore milanese quelli oltretutto erano mesi di cambiamenti profondi. Nel luglio 1977 aveva perso la madre tanto amata, e il senso di pace che quella scomparsa gli aveva comunicato lo aveva portato a una riconciliazione anche con la chiesa. Intorno a lui c'era un Paese piegato dall'angoscia del terrorismo, della droga che si divorava centinaia di giovani, di una crisi economica che frantumava definitivamente i sogni del boom. Quando, nel marzo 1978, questa spirale di negatività toccò il suo punto più profondo con il rapimento e il delitto Moro, Testori uscì allo scoperto con una lettura della situazone assolutamente fuori da ogni schema. «Realtà senza Dio» s'intitolava quel suo commento, pubblicato il 20 marzo. Testori, con una scrittura appassionata, attaccava «il contrabbando retorico» delle analisi apparse. «Non ci siamo imbattuti», continuava, riferendosi al profluvio di commenti sui giornali, «in una sola domanda che recasse in sé il disperato bisogno di una spiegazione totale del punto in cui è arrivata la vita». Questa, secondo Testori, era la vera tragedia che poi originava le tante altre che la quotidianità proponeva. Non solo: questa latitanza della cultura, lasciava solo l'uomo normale, lo abbandonava nel vuoto di domande rimaste senza più una risposta. «L'uomo e la sua società», concludeva Testori, «stanno morendo per eccesso di realtà; ma d'una realtà privata del suo senso e del suo nome: privata cioè di Dio. Dunque d'una realtà irreale». Quell'articolo suscitò, più che polemiche, un consenso straordinario tra i lettori, che sommersero il Corriere di lettere. Qualcuno non si limitò a quello: come alcuni studenti della Cattolica che prima trascrissero l'articolo su un tatsebao proponendolo per molti giorni all'ingresso dell'università. E poi andarono nello studio di via Brera 8 e suonarono alla porta di Testori. Quel gruppo di ragazzi erano di Comunione e liberazione: di loro e della loro storia Testori non sapeva nulla. Ma la domanda che aveva còlto sui loro volti era la stessa di cui aveva parlato in quel pezzo sul Corriere,

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