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Privatizzando il mare salviamo i pesci

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La tesi è che i pesci e molte altre specie animali sarebbero in drastica diminuzione, quando non prossime all'estinzione, a causa della cupidigia e dell'egoismo dei pescatori (professionisti e dilettanti). In realtà tale analisi si concentra unicamente sul problema in sé, senza curarsi minimamente di rintracciarne le cause: questa, almeno, è la ferma convinzione di Michael De Alessi, autore del libro «Fishing for Solutions» (Ed. Institute for Economic Affairs). Il vero nocciolo della questione, secondo lo studioso americano, va piuttosto ricercato nell'assenza di diritti di proprietà sull'ambiente e sulle specie viventi che lo popolano. Nel momento in cui il pesce appartiene "a tutti", nessuno in particolare sarà spinto a tenere in conto le conseguenze future delle proprie azioni. L'orizzonte temporale dei pescatori, anzi, sarà estremamente ridotto, e ognuno tenderà a garantirsi il massimo profitto nel minor tempo possibile possibile, ben sapendo che un semplice voto del Parlamento o l'emanazione di un regolamento (o, più semplicemente, un concorrente più abile) potrebbero dissolvere ogni progetto futuro. «Gli incentivi all'auto-distruzione - ha scritto De Alessi - devono essere ridotti prima che i pescatori riescano a trovare soluzioni pratiche e creative ai propri problemi. Per eliminare le preoccupazioni commerciali, dilettantistiche e ambientali, e per prevenire una ulteriore degradazione dell'ambiente marino, è necessaria una qualche forma di devolution e di definizione dei diritti di proprietà, qualunque essa sia». In questo senso, va rilevata e denunciata l'inefficienza dei metodi tipicamente utilizzati dai governi. Essi, infatti, non faranno altro che produrre scappatoie: «Si limiti il numero dei giorni in cui è concesso pescare - osserva l'autore di Fishing for Solutions - e l'attività dei pescatori semplicemente diverrà più intensa nei periodi permessi dalla legge. Senza alcuna percezione della proprietà - prosegue De Alessi - i pescatori non altra scelta che accaparrarsi la maggior quantità di pesce possibile, prima che lo faccia qualcun altro. I pescatori non hanno alcun desiderio di distruggere la loro fonte di ricchezza, ma finché le regole del gioco riguarderanno l'ultra-produzione, i branchi di pesci continueranno a diminuire». La vera alternativa, allora, va ricercata nella privatizzazione delle risorse marine: nel momento in cui questo avverrà, i pescatori «riceveranno incentivi a mantenere per i pesci un certo grado di benessere nel lungo termine, manterranno il pescato entro certi limiti e faranno investimenti per proteggere o addirittura migliorare l'ambiente». La vera chiave per la conservazione della natura, dunque, sta nella proprietà e nel profitto. Solo quando, e nella misura in cui, l'ambiente diverrà economicamente vantaggioso, esso verrà anche difeso non da burocrati lontani dalla società civile, ma proprio dagli attori di quest'ultima. Non a caso lo studioso americano afferma che, laddove la common law è riuscita a individuare, seppure in maniera talvolta «informale», dei veri e propri «confini», si è assistito a un miglioramento nella qualità delle acque e a una auto-regolamentazione del pescato. Le cose potrebbero ancora migliorare, conclude De Alessi, se «il legislatore vedesse i benefici di fondo che la proprietà privata delle risorse porta in dote sia ai pescatori che all'ambiente marino».

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